Haiti: Viv Revolisyon!

Tratto da La Oveja Negra. Boletín de la Biblioteca y Archivo Histórico-Social “Alberto Ghiraldo”, Rosario (Argentina), anno 8, numero 66, Novembre 2019, pagg. 30-31. Pubblicato su Umanità Nova, 1 Dicembre 2019. Tradotto da LaHyena

Nello stesso momento in cui bruciavano le strade dell’Ecuador, Cile e di Hong Kong, il proletariato incontrollato di Haiti stava facendo lo stesso già da tempo. Le stesse forme di lotta: barricate, saccheggi, incendi di aziende o uffici statali, attacchi alle forze dell’ordine. La rimozione dei sussidi per il carburante, come parte delle misure di austerità imposte dall’FMI nel luglio 2018,[1] esplosero in uno stato di rivolta quasi permanente che nelle ultime settimane ha causato la morte di 42 persone.
Dire “incontrollat*” ai nostri fratelli [e alle nostre sorelle] di classe dell’isola caraibica non è un’esagerazione e vediamo il perché.
La popolazione di Haiti sopravvive tra la vendita ambulante e lo sfruttamento [all’interno] delle maquilas[2] tessili o elettroniche. La disoccupazione oscilla intorno al 70%. Nel 2010, le pessime condizioni di vita sull’isola sono state esacerbate da un terremoto del 7° sulla scala Richter. Secondo i dati ufficiali morirono tra le 200.000 e le 316.000 persone. Il paese fu ridotto in macerie. Il Capitale che, come il re Mida, può trasformare qualsiasi cosa in oro, iniziò un’invasione dell’isola per salvaguardare gli investimenti e crearne altri, proteggendo al contempo la democrazia. Insieme alle portaerei statunitensi e con il permesso della casta politica locale, è arrivato anche un intero gruppo di ONG e missionari pentecostali che hanno sventolato la bandiera dell’umanitarismo. In quell’anno si contarono, come quantità, 20.000 ONG,[3] generando investimenti milionari al costo dell’agonia di tutta la popolazione.[4]
La gestione e gli affari previsti nel paese più impoverito del continente non sono esclusivi degli Stati Uniti. In effetti, prima del terremoto, la Repubblica Bolivariana del Venezuela aveva già avviato il suo programma di beneficenza chiamato Petrocaribe nel 2005. Godendo di un boom economico, il governo di Hugo Chavez creò questa entità al fine di inviare petrolio sull’isola. Così [Haiti] avrebbe pagato un 40% del suo valore, rivendendo tale petrolio nel mercato interno, con l’impegno di utilizzare l’eccedenza per progetti infrastrutturali. Ovviamente nulla di tutto ciò accadde. Nel nome della “Grande Patria” dell’una e dell’altra parte si riempirono le tasche. I funzionari bolivariani Bernardo Álvarez (Petróleos de Venezuela S.A) e Pedro A. Canino González (ambasciatore) espressero il loro accordo con l’amministrazione del Petrocaribe, appoggiando le autorità del paese. Ma il peggio stava per arrivare sotto il nome dell’integrazione latinoamericana. Terremoto, profitti a spese della sofferenza, investimenti milionari che non cambiarono nulla.
Gli animi del proletariato iniziarono a riscaldarsi. Ad otto giorni dal sisma furono erette barricate a Port-au-Prince. La stampa diede a conoscere che furono alzate con cadaveri umani,[5] cercando di creare l’immagine di un territorio devastato dai selvaggi. Qualsiasi accenno di ribellione doveva essere interrotto. Né l’ottusità né la pigrizia dell’ONU fecero nulla con la “Missione di pace” nella regione, portando i suoi caschi blu nei Caraibi. La Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione ad Haiti (MINUSTAH)[6] – che aveva iniziato la sua prima tappa nel 2004 dopo il rovesciamento del presidente Jean-Bertrand Aristide – avrebbe lavorato nel “paese per adempiere al suo mandato di stabilire un ambiente sicuro e stabile nel quale si potesse sviluppare un processo politico, rafforzare le istituzioni del governo di Haiti, sostenere la costituzione di uno stato di diritto e promuovere e proteggere i diritti umani.”(sic)[7]
La missione, che portò soldati da tutto il mondo, contava la collaborazione di Argentina, Brasile, Cile, Bolivia e Uruguay nel miglior momento del progressismo latinoamericano. Lula Da Silva sarebbe stato il direttore onorario della missione essendo il presidente che ha inviato il maggior numero di effettivi. L’ex ministro della Difesa argentino Agustín Rossi dichiarerà nel 2013, di inviare il maggior numero di assassini: “[L’Argentina] è doppiamente impegnata ad Haiti, come membro della MINUSTAH e anche come fratello latinoamericano.”
Le rivolte e le proteste contro i caschi blu si sono verificate fin dal loro arrivo e sono state represse dalla polizia. Mentre i tanti soldati della “NuestrAmerica” e di altri paesi si incaricavano di fare ciò che meglio sanno: ferire, uccidere, sfruttare sessualmente e stuprare.[8] Con queste violazioni, come in Vietnam, apparvero bambin* orfan* di padri soldati – questa volta però latinoamericani.
Il contingente nepalese portò un ceppo di colera che in 3 anni uccise oltre 8000 persone.[9] Pochissimi alzarono la voce per quest* proletari* massacrat*. Sarebbe fare il gioco alla destra e all’imperialismo? L’intervento umanitario riciclato come MINUSJUSTH (Missione delle Nazioni Unite a Sostegno della Giustizia ad Haiti) si è concluso nel 2017, sostituendo il salvataggio con un altro, il cosiddetto Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti (BINUH).[10]
Il proletariato ad Haiti prende le strade ancora una volta. Lo sta facendo ora, contro la sua stessa borghesia e contro gli invasori della democrazia, indipendentemente dal fatto che siano ONG con dottori ben intenzionati, missionari, funzionari bolivariani o soldati yankee o argentini. Come in tutte le latitudini esplode la rivolta e come in tutto il mondo manca la rivoluzione.
Haiti, come il Cile, sono territori di sperimentazione sociale. Lo sanno gli/le abitanti delle favelas del Brasile. Dopo il massacro nei Caraibi, le armi furono usate contro gli abitanti delle colline. L’unità di pacificazione della polizia è nata in parallelo con la MINUSTAH e prese lezioni da essa.
Per questo la rivoluzione non è un bel sogno: è una dannata necessità. L’internazionalismo non è un motto umanista ma una condizione per mandare questo sistema all’inferno.
Gli/le antenat* schiav* degli/delle haitian*, tra il 1791 e il 1804, si ribellarono e giunsero al massacro di tutti i padroni dell’isola, sconfiggendo l’esercito napoleonico.[11] Il ricordo dei cimarroni [12] è ancora vivo in quelle bande incontrollate di machete, pietre e barricate che sorgono dai quartieri di Port-au-Prince.

Note del traduttore e de La Oveja Negra

[1] Nel Febbraio 2018, il FMI e il governo di Haiti giunsero ad un accordo per uno “Staff-Monitored Program.” (SMP), una politica fiscale volta a concentrarsi “sulla mobilitazione delle entrate e sulla razionalizzazione delle spese correnti, per fare spazio agli investimenti pubblici critici in infrastrutture, sanità, istruzione e servizi sociali. Ciò includerà misure per migliorare la riscossione e l’efficienza delle tasse e per eliminare sovvenzioni eccessive, incluso il carburante al dettaglio. Link: https://www.imf.org/en/News/Articles/2018/02/26/pr1868-haiti-imf-staff-reaches-staff-level-agreement-with-haiti-on-smp
[2] Le maquilas o maquiladoras sono quegli stabilimenti di produzione che importano e assemblano per l’esportazione. L’accordo consente ai proprietari degli impianti di beneficiare di manodopera a basso costo e di pagare dazi solo sul “valore aggiunto”, ovvero sul valore del prodotto finito meno il costo totale dei componenti che erano stati importati per realizzarlo. La stragrande maggioranza dei maquiladoras sono di proprietà e gestiti da società messicane, asiatiche e americane.
[3] Fin dalla fine degli anni ’90 la Banca Mondiale riportava una presenza massiccia di ONG ad Haiti a causa della corruzione e inadempienza dell’amministrazione statale haitiana. Vedasi Haiti: NGO sector study (1997) e Haiti: The challenges of poverty reduction,Vol 2: Rural poverty in Haiti (1998)
[4] Le donazioni di denaro inviate alle ONG operanti ad Haiti – specie dopo il terremoto – vennero utilizzate da molte delle dirigenze di queste Organizzazioni per pagarsi gli stipendi e vacanze. Link agli articoli: https://fpif.org/are-foreign-ngos-rebuilding-haiti-or-just-cashing-in/
; https://www.propublica.org/article/how-the-red-cross-raised-half-a-billion-dollars-for-haiti-and-built-6-homes
[5] La stampa internazionale – italiana compresa – riportò questa notizia per sottolineare in modo non troppo velato come ad Haiti vi fossero un branco di selvaggi da rieducare velocemente. Link degli articoli: https://www.lastampa.it/esteri/2010/01/15/news/cadaveri-e-violenze-orrore-ad-haiti-1.37028725 ; https://www.notimerica.com/sociedad/noticia-organizan-barricadas-cadaveres-fallecidos-haiti-protesta-ausencia-ayuda-humanitaria-20100115081329.html ; https://lta.reuters.com/articulo/latinoamerica-sismo-haiti-barricada-idLTASIE60D1NH20100114
[6] Link: https://minustah.unmissions.org/
[7] Link: https://peacekeeping.un.org/es/mission/minustah
[8] Gli stupri e violenze fisiche dei caschi blu verso le donne haitiane generò un enorme scandalo a livello internazionale. Link degli articoli: https://www.independent.co.uk/news/world/americas/un-haiti-peacekeepers-child-sex-ring-sri-lankan-underage-girls-boys-teenage-a7681966.html ; https://apnews.com/792ea15f447d45ed940a6b537c3cf608/Exclusiva-AP:-cascos-azules-dejan-v%C3%ADctimas-sexuales-en-Hait%C3%AD
[9] L’origine dell’epidemia venne scoperta grazie alle indagini del giornalista Jonathan M. Katz e dell’epidemiologo Renaud Piarroux. Gli studi di Piarroux sono stati citati nel libro dell’epidemiologo Ralph R. Frerichs, Deadly River: Cholera and Cover-Up in Post-Earthquake Haiti. Link dell’articolo di Katz: https://www.nytimes.com/2016/08/19/magazine/the-uns-cholera-admission-and-what-comes-next.html
[10] Link: https://binuh.unmissions.org/en
[11] Per conoscere meglio la lotta del proletariato nero schiavizzato negli Stati Uniti e nei Caraibi, raccomandiamo il libretto The Hydra and The Dragon; è uno studio storico sui metodi di organizzazione fatto da Russell Maroon Shoatz. Maroon Shoatz era un membro fondatore del Black Panther Party. Il libretto mantiene uno sguardo critico verso quelle concezioni militariste marxiste-leniniste dell’organizzazione. Link: https://theanarchistlibrary.org/library/russell-maroon-shoats-the-dragon-and-the-hydra
[12] L’origine del termine “cimarrón”, secondo il filologo cubano José Arrom, deriva da un termine nativo delle antille e significa “fuggitivo.” Come spiegato nel saggio di Arrom, “Cimarrón: apuntes sobre sus primeras documentaciones y su probable origen”, il termine veniva utilizzato nell’isola di Hispaniola (dove sorgono oggi giorno gli Stati di Haiti e Repubblica Dominicana) per indicare dapprima la fuga del bestiame e, successivamente, la fuga delle popolazioni native e degli/delle schiav* african*. Link del documento di Arrom: https://core.ac.uk/download/pdf/38844643.pdf

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Dibattito sul Nicaragua: Precisazioni&Risposta

Articolo comparso su Umanità Nova, 17 Novembre 2019. Firmato Mauro de Agostini e LaHyena.

Precisazioni di Mauro de Agostini
Nell’articolo (per altri versi ottimo) di LaHyena, “Nicaragua-Cile La democrazia in azione” (Umanità Nova 31/2019) leggo alcune semplificazioni sul Nicaragua che richiedono di essere precisate.
“Con l’affermazione di Ortega Saavedra e del Frente Sandinista de Liberaciòn Nacional – scrive infatti LaHyena – nelle lezioni del novembre 1984, il Nicaragua ha avviato un processo di ripresa economica dopo i disastri provocati dalla dittatura dei Somoza”.
Un lettore poco attento o poco informato sulla storia di quel paese potrebbe pensare che il passaggio dalla dittatura all’attuale governo del FLSN sia avvenuto nel 1984. La realtà è però decisamente molto più complessa.
Il regime dittatoriale di Anastasio Somoza (ultimo esponente di una vera e propria dinastia) venne abbattuto da una rivoluzione popolare guidata dal FSLN nel lontano 1979. Il Frente Sandinista (che si richiamava nel nome al guerrigliero antimperialista Augusto Sandino, assassinato negli anni trenta del Novecento) una volta al potere avviò diverse riforme: una riforma agraria con la redistribuzione di parte dei latifondi, un ampio processo di alfabetizzazione, la riforma sanitaria.
Umanità Nova dell’epoca dà conto in diversi articoli delle contraddizioni di questa rivoluzione: da una parte un ampio consenso popolare, dall’altra una strutturazione verticistica del potere in cui tutte le decisioni erano assunte dal ristretto nucleo dei “Comandanti della Rivoluzione”. Ovvia l’ostilità delle classi dominanti e l’intervento degli USA che si impegnarono a fondo per abbattere il nuovo governo. Venne imposto l’embargo economico e finanziata una contro-guerriglia (i “Contras”). Altrettanto ovvio l’appoggio di Cuba al FSLN.
Dopo aver vinto alla grande le elezioni del 1984 il FSLN perse di misura le elezioni del 1990 vinte da una coalizione di partiti sostenuti dagli USA e guidata da Violeta Chamorro. Vale la pena di ricordare che la Chamorro, proprietaria del quotidiano La Prensa era vedova di un giornalista assassinato da Somoza ed aveva partecipato all’opposizione al dittatore, senza però condividere le tinte “socialisteggianti” del FSLN.
Ovviamente il nuovo governo si affrettò a smantellare le riforme sandiniste, aprendo il paese agli USA ed al capitale straniero. Arriviamo così alle elezioni del 2006 quando il FSLN, ora guidato dal solo Daniel Ortega Saavedra (ultimo rimasto degli antichi “Comandanti della Rivoluzione”) torna al potere.
Il FSLN del 2006 è però ben diverso da quel che era stato oltre venticinque anni prima! Ormai la sete di potere ha prevalso su tutto, i vecchi ideali sono stati accantonati, la lezione è stata ben appresa. Per rimanere al governo bisogna genuflettersi alla volontà degli Stati Uniti e del capitale internazionale.
Particolarmente vistosa la trasformazione di Ortega, da coraggioso guerrigliero a tirannello disposto a massacrare il suo stesso popolo pur di mantenersi al potere. Una trasformazione che non sorprende certo gli anarchici che l’hanno denunciata in centinaia di casi simili e che è la normale conseguenza della gestione del potere statale. Ormai, come ben ricorda LaHyena “Ortega y Somoza son la misma cosa”.

Risposta di LaHyena
Ringrazio Mauro per le precisazioni riportate nel suo breve articolo; spiegherò adesso alcuni passaggi che mi hanno portato a “semplificare determinate cose”,
Quando riporto che il FSLN e Ortega Saavedra avviarono un processo di ripresa economica, mi rifaccio in particolare ai dati economici – specie storici – riportati dal Fondo Monetario Internazionale (vedasi nota 3). Qualcuno – compreso Mauro – può storcere giustamente il naso per l’utilizzo di tale fonte. Però questi dati economici storici sono una mera indicazione del lavoro di ristrutturazione economica borghese dei tempi (cominciato con la Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional (1979-1985)).
Come scritto nella nota 11: “Il varo di leggi contro lo sciopero e di potenziamento dell’esercito (grazie ai contributi sovietici e cubani) servirono, ufficialmente, per impedire agli Stati Uniti di Reagan e i suoi alleati Contras di abbattere il governo democratico. In realtà questi leggi servirono per dare linfa vitale alla borghesia, anche a costo di passare sulle popolazioni native e sui/sulle lavoratori/lavoratrici.”
Le leggi che ho citato sono per la precisione la “Ley de Estado de Emergencia Economica y Social”[1] e la “Ley del Servicio Militar Patriòtico” (SMP) n. 1327 del 13 Settembre 1983.[2]
Questi due esempi servono a comprendere la virata che avevano preso non solo i sandinisti ma tutti quelli che erano dentro il governo di transizione. Una virata dettata dalle azioni dell’amministrazione Reagan e dei Contras nel destabilizzare il Nicaragua – e sottolineo “ovviamente” perché sarebbe da stupidi negare le azioni statunitensi – ma anche, ripeto, nel ricostruire l’economia di un territorio depredato e distrutto dalla famiglia Somoza in 40 anni di dominio. Le contraddizioni così manifestate – giusto per citare Mauro – vennero riportate su Umanità Nova e anche in giornali e riviste come Volontà (con un numero specifico nel 1985), Le Monde Libertaire, Courant Alternatif e Anarchismo Rivista.
Riguardo Umanità Nova, riporto quello che scrisse nel 1987 Xavier Melville (all’epoca membro del Gruppo Pierre Besnard di Parigi) nell’articolo “Effervescenza in Nicaragua. Speculazione e mercato nero spingono i lavoratori all’autoorganizzazione nelle città e sui posti di lavoro”:[3]
“(…) Il presidente Ortega ha indicato le posizioni del FSLN in campo economico per il 1987 in un incontro con gli organismi interessati (29 Gennaio). ‘Ci sono compagni che pensano che non c’è rivoluzione in Nicaragua perché esiste un settore privato. Per essi bisogna farla finita con i padroni e confiscare le proprietà di tutti i produttori privati, ma questa è una posizione equivoca, estremista (…) le rivoluzioni non si compiono meccanicamente. Noi facciamo una rivoluzione che corrisponde alla nostra specifica realtà. I padroni hanno le loro posizioni ed il diritto di esprimerle come stanno facendo oggi. Noi abbiamo stabilito nella Costituzione il pluralismo politico, l’economia mista e il non allineamento. Noi rispettiamo ciò e non per opportunismo. Se i problemi economici di questo paese si potessero risolvere con la semplice eliminazione dei produttori privati, noi lo avremmo fatto. (…)”
Alla luce di questo report di Melville sono passati solo 2 anni da quando Ortega Saavedra vinse le elezioni, confermando, insieme alle due leggi citate in precedenza, l’andazzo che vi era all’epoca ed è per questo che non mi trovo d’accordo su questo pezzo della precisazione di Mauro:
“Ma il FSLN del 2006 è ben diverso da quel che era stato oltre venticinque anni prima! Ormai la sete di potere ha prevalso su tutto, i vecchi ideali sono stati accantonati, la lezione è stata ben appresa. Per rimanere al governo bisogna genuflettersi alla volontà degli Stati Uniti e del capitale internazionale.”
Pur non avendo vissuto quel periodo storico – io sono nato nel 1986 – capisco come molti compagni, ai tempi, sostennero la lotta sandinista contro un regime clientelare, militare e familistico come quello dei Somoza – regime denunciato a più riprese ne L’Adunata dei Refrattari o in Solidaridad Obrera tra gli anni ’50 e ’60. Non cadiamo però nell’errore di credere che il FSLN si sia genuflesso al FMI e alla Banca Mondiale solo nel 2006; come ho mostrato, il FSLN prima dentro la Junta e dopo “in solitaria” al potere, ha semplicemente normalizzato e pacificato un territorio, dando qualche contentino (riforma agraria ed alfabetizzazione) passando sulla pelle di lavoratori, lavoratrici, popolazioni native (come i Miskitos), donne e soggettività non eterosessuali.

Note
[1] Link: http://legislacion.asamblea.gob.ni/normaweb.nsf/($All)/FF9D498D7D9C8A91062570A10057CDC4?OpenDocument
Come riportato dal giornale comunista internazionalista El proletario. Partido Comunista Internacional nell’articolo “Nicaragua. Prohibido el derecho de huelga” (numero 12, Settembre-Dicembre 1981, pagg. 1 e 3), si denunciava come l’Articolo 3 f della Ley de Estado de Emergencia Economica y Social impedisse lo sciopero e, quindi, tenesse al laccio i/le lavoratori/lavoratrici.
[2] Link: http://legislacion.asamblea.gob.ni/normaweb.nsf/($All)/4316A8EDC3B3CC37062570D50076E915?OpenDocument
[3] L’articolo apparve su Le Monde Libertaire e tradotto e pubblicato in italiano su Umanità Nova del 17 Maggio 1987.

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Cile. La violenza politica sessuale: strumento repressivo in dittatura e in democrazia

Articolo comparso su Umanità Nova, 10 Novembre 2019. Tradotto da Klaus

Tratto da El Sol Àcrata. Periòdico Anarquista, numero 5, Cile, anno VIII, Ottobre 2019, pag. 3.

Gli ultimi giorni dell’Estado de Emergencia hanno registrato 1692 persone arrestate, 226 ferite, 5 uccise per presunte azioni da parte degli agenti statali e 3 denunce di violenza sessuale. Questi sono solo i dati ufficiali registrati dall’Instituto Nacional de Derechos Humanos (INDH).[1] E sono questi: dati. Molti altri sono i racconti che mostrano la brutalità delle forze repressive. Questo sabato[2] Pamela fu arrestata in un caceroleo con suo padre nel settore di San Isidro. Dirett* verso la stazione di polizia, uno degli agenti di polizia ha minacciato di aggredirla sessualmente, gridando “vediamo se ti piace nel culo!”.[3]
Domenica 20 ottobre, un’altra donna è stata arrestata dal personale della Escuela de Telecomunicaciones dell’Esercito all’interno di un supermercato Acuenta del comune di Peñalolen.[4] Insieme ad altre persone è stata legata con lacci di plastica, costretta a sdraiarsi a faccia in giù sulla spazzatura, mentre le puntavano una pistola in faccia, minacciandola di sparare se si muoveva. Con l’arma toccavano il suo corpo, mentre registravano la situazione tra prese in giro e minacce di penetrazione con il fucile.[5]
L’orrore e la rabbia nel sentire queste testimonianze, ci ricordano le tante storie di crimini sessuali commessi contro le donne durante la dittatura[6] – che fino ad oggi sono ancora in vigore. Ma questi anni di democrazia – che non è stata altro che la dittatura del capitale – le donne sono state tormentate in vari contesti con le molestie sessuali delle forze repressive dello Stato. Nel marzo di quest’anno, i carabineros de civil, Rubén Gálvez Albarrán e Bastián Rojas Norambuena violentarono una donna a Punta Arenas. Entrambi furono licenziati ma in agosto le indagini vennero chiuse, indicando che non c’erano più le basi per provare il crimine che ella stessa aveva denunciato il giorno dopo l’accaduto – un episodio che dovette riferire più volte solo per ottenere l’indifferenza del sistema giudiziario.[7]
Carezze, denudazioni in caserma, insulti e minacce di molestia sessuale e stupro: la violenza politica nei confronti delle donne si è mantenuta costante. Lo Stato è patriarcale e lo sono anche le sue istituzioni repressive, indipendentemente dal fatto che siamo in democrazia o in dittatura. Si tratta di un’aggressione differenziata nei confronti dei corpi e della sessualità delle donne, esercitata come pratica sistematica ed esplicita. Non sono atti insignificanti; non commettono errori, nemmeno se esagerano. È un meccanismo di controllo e subordinazione.
Cercano di imprimere nel corpo un castigo, registrando nella sua memoria una sanzione che pretende di essere trasmessa di generazione in generazione, perpetuando la paura come avvertimento per rimanere nel posto assegnato. Molestano i nostri corpi che non si sottomettono al mandato sociale. Molestano la doppia ribellione; contro il suo modello economico di precarietà – che ruba le nostre vite – ed il suo ordine di dominio che è sostenuto solo a nostre spese e contro di noi. Per questo il castigo si dirige alla sessualità: per ricordarci qual è il posto assegnato ai nostri corpi dal loro ordine, quel luogo di subordinazione dal quale abbiamo lottato tanto per uscire. In tempi di terrorismo neoliberista e militarizzazione di territori, dobbiamo ricordare più che mai che la violenza politica sessuale è stata – e continua ad essere – uno degli strumenti repressivi centrali dello Stato contro le donne;[8] ecco perché dobbiamo raggrupparci, aiutarci e difenderci tra di noi.

Note del traduttore
[1] I dati dell’INDH si riferiscono alla giornata del 22/10/2019 (come riportato dai siti di Telesurtv e della CNN-Chile. Link: https://www.telesurtv.net/news/chile-protestas-represion-policial-criminalizacion-manifestantes-20191022-0036.html; https://www.cnnchile.com/pais/fiscalia-identidades-personas-muertas-indh-querellas-agresiones_20191022/ )
[2] Fatto avvenuto il 19 Ottobre 2019.
[3] Link: https://www.eldesconcierto.cl/2019/10/21/asi-las-reprimen-en-estado-de-excepcion-mujeres-denuncian-golpizas-humillaciones-y-amenazas-de-violacion/
[4] Come riportato da biobiochile, l’Esercito del Cile ha detto che “saremo implacabili di fronte al vandalismo che sta distruggendo la nostra infrastruttura critica e vitale per la popolazione”.
Link: https://www.biobiochile.cl/noticias/nacional/region-metropolitana/2019/10/20/video-muestra-a-50-saqueadores-en-el-piso-llorando-tras-ser-detenidos-por-el-ejercito-en-penalolen.shtml
[5] “Amenazaron con penetrarla con el fusil”: INDH denuncia grave actuar de militares contra mujer.
Link: https://www.24horas.cl/nacional/amenazaron-con-penetrarla-con-el-fusil-indh-denuncia-grave-actuar-de-militares-contra-mujer-3675606
[6] Nell’“Informe de la Comisión Nacional sobre Prisión Política y Tortura” – commissione istituita nel 2003 con il decreto numero 1040 – viene riportato come le donne fossero oggetto di violenze sessuali. Parte di questa informativa è stata ripresa nel libro del giornalista Daniel Hopenhayn, Así se torturó en Chile (1973-1990).
Link del decreto numero 1040: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=217037&idVersion=2005-03-17
Link dell’Informe (pagg. 251-259): https://bibliotecadigital.indh.cl/handle/123456789/455
[7] Link: https://www.eldesconcierto.cl/2019/10/15/la-denuncia-de-violacion-contra-dos-carabineros-que-remecio-puerto-natales/
[8] Il caso di Daniela Carrasco rispecchia quanto detto: in nome di un controllo etero-patriarcale dei corpi delle donne, Carrasco è stata torturata, stuprata ed assassinata dai militari. Il suo corpo è stato impiccato davanti al Parque Jarlan di Santiago del Cile per intimorire – secondo il Colectiva Feminista de lo Espejo – gli abitanti (specie le donne) nel ribellarsi. Anche la rete Ni Una Menos e la Red de Actrices Chilenas hanno accusato il governo e i militari della morte della donna.

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Da una compagna cilena: il risveglio del Cile

Articolo comparso su Umanità Nova, 10 Novembre 2019. Firmato Loretta Giannoni.

Una Premessa

Pochi giorni fa, il 18 ottobre 2019, è scoppiata la rivolta sociale più grande ed unitaria che il Cile abbia mai visto. Qualche giorno prima, il movimento studentesco aveva invitato a non pagare il servizio di trasporto pubblico, come forma di protesta per un nuovo aumento del biglietto (il più caro in America Latina) nella capitale Santiago. Il governo del neoliberista Sebastian Piñera ha reagito subito con la forza, dichiarando lo Stato di Emergenza, limitando le libertà individuali e di movimento (coprifuoco), sguinzagliando le forze militari contro un popolo che si era unito finalmente per dire basta a 30 anni di schiavitù economica.

Per capire cosa ha portato la maggioranza del paese ad unirsi alle proteste contro il carovita bisogna tornare all’origine del modello socio-economico che esiste oggi in Cile.

Nel 1970 viene eletto presidente Salvador Allende con il supporto di diversi partiti e movimenti di sinistra, tra cui il Partito Comunista, quello socialista, la sinistra cattolica e la CUT (Central Unica de Trabajadores), riuniti nell’Unidad Popular. Ovviamente, in piena Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti non è rimasto a guardare e Nixon ordinò il blocco economico verso il Cile, generando caos e mancanza di prodotti di prima necessita; nel mentre, la CIA organizzò insieme all’esercito cileno il colpo di stato.

L’11 settembre del 1973 il paese e il mondo intero guardano con orrore i caccia dell’esercito comandato dal Generale Augusto Pinochet bombardare La Moneda, il sogno dell’Unidad Popular era finito e l’incubo iniziava…

Durante la dittatura di Pinochet, sotto la regia di Milton Friedman – professore dell’Università di Chicago e padre della “dottrina dello shock economico”– si iniziò a preparare il paese a quello che sarebbe stato il più brutale degli esperimenti del capitalismo.

Per prima cosa bisognava mantenere il popolo nella paura. Pinochet sostiene che “il Paese è in guerra contro il marxismo, che sta portando il Paese nel caos”: la caccia alle streghe non si ferma e continuano le detenzioni, le torture, le morti e le sparizioni in pieno giorno. I militari hanno il controllo assoluto delle strade, c’è il coprifuoco in tutto il paese e viene fatto rispettare a colpi di fucile. Non esistono più la libertà di espressione, di movimento e di pensiero. Il Paese non solo è sommerso dal caos, ma vive nel terrore. Il Cile è così pronto per ricevere la terapia dello shock: chiunque osi ribellarsi contro la politica del libero mercato, rischia la vita.

Un gruppo di giovani economisti cileni viene spedito all’Università di Chicago per preparare insieme a Friedman la strategia economica, basata su una totale privatizzazione. Vengono anche eliminati il controllo sui prezzi e le barriere all’importazione e tagliata la spesa pubblica.

In questo contesto vengono create nel 1982 le AFP (Administradoras de Fondos de Pensiones), il sistema di pensioni private che si regge esclusivamente sulle leggi del libero mercato, la cui abolizione è oggi una delle principali richieste che fa il popolo.

Come ci si può immaginare, la politica economica cilena in questi 30 anni di democrazia non è cambiata più di tanto, diventando ogni volta più feroce ed aumentando il divario economico tra ricchi e poveri. Sebbene il Cile sia considerato a livello mondiale l’economia più solida del Sudamerica e la povertà estrema sia minima, la classe media cilena diventa ogni giorno più estesa e più povera – ma anche più arrabbiata.

Il risveglio del Cile

Venerdì 18 ottobre dopo qualche giorno di protesta da parte degli studenti nella Metro di Santiago, il Governo chiama le forze speciali dei Carabineros per fermare a qualunque costo gli evasori. Gli studenti non si fermano ed i Carabineros decidono quindi di chiudere completamente la metropolitana, lasciando milioni di persone senza un mezzo per tornare a casa. La gente si ritrova in strada e in tanti iniziano a protestare sommandosi agli studenti, i vicini si uniscono dalle proprie case sbattendo cucchiai contro le pentole nell’ormai popolare “cacerolazo” (cacerola = casseruola).

Non erano più i 30 pesos dell’aumento del biglietto: c’era un Paese intero che chiedeva una vita più degna. La violenza da parte dei Carabineros non ha fatto altro che creare più tensione tra la gente che manifestava e sono arrivati barricate e saccheggi. Il Presidente, non sapendo come affrontare la situazione, dichiara lo Stato di Emergenza, lasciando così all’esercito il controllo delle strade, proibendo ogni tipo di riunione e decretando il coprifuoco dalle ore 20 alle 6. Domenica mattina Sebastian Piñera ha pronunciato la frase “Siamo in guerra e il nostro è un nemico potente”.

Il Paese sembrava essere immerso nel caos, c’erano saccheggi ovunque in pieno giorno indisturbati dai militari; intanto qualunque manifestazione pacifica, raduno e soprattutto qualunque persona osasse non rispettare il coprifuoco, veniva subito fermata a forza di lacrimogeni, idranti e colpi d’arma da fuoco non sempre sparati in aria. La maggioranza dei mezzi di comunicazione trasmetteva solo caos e disordine, aiutando così a creare ancora più panico nella popolazione.

L’intenzione del governo di Piñera era chiara: voleva replicare la storia, silenziare il popolo con la stessa violenza della dittatura di Pinochet. Terrorizzandolo tramite le notizie, chiamando alla guerra, permettendo i saccheggi ma reprimendo violentemente la libertà delle persone. Solo che questa volta non ha funzionato perché al popolo cileno è stato rubato tutto, anche la paura: non si fermeranno finché non avranno risposte certe.

Un Cile più giusto

La grandissima classe media cilena è fortemente stratificata. I più benestanti si sono potuti permettere cose come l’accesso ad una buona sanità ed all’educazione privata, non fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e vanno in vacanza ogni anno, gli altri invece no. Questi due estremi della classe media però vivono e lavorano a diretto contatto tra loro. Oggi li vediamo insieme nelle manifestazioni: si sono uniti per far si che i privilegi di pochi possano diventare i diritti di tutti. Studenti, artisti, operai, medici, impiegati, giornalisti, calciatori, pensionati, disabili, piccoli imprenditori, infermieri, lavoratori indipendenti, avvocati, animalisti, ecologisti, femministe, comunità indigene e famiglie intere, riuniti non da un’ideologia ma dalla convinzione che questa ormai sia l’unica arma per lottare per una società più giusta per tutti. È il momento d’affrontare insieme argomenti che coinvolgono tutto il Paese come il sistema pensionistico, la corruzione, il TPP11 e la protezione delle risorse naturali del Cile. Chiedono un’Assemblea Costituente dove venga scritta insieme una nuova Costituzione in sostituzione dell’attuale, emanata nel 1980 durante la dittatura.

Le richieste della gente sono molteplici ma tutte fanno riferimento al benessere ed alla dignità delle persone, seppur nella loro diversità di esigenze. Tra le più frequenti: aumentare lo stipendio minimo da €380 a €620 e diminuire le ore lavorative da 45 a 40; educazione gratuita; migliorare il sistema sanitario (in Cile tante persone muoiono ogni anno in attesa di ricevere attenzione e cure mediche, a volte anche basiche); la nazionalizzazione dell’acqua e delle risorse naturali, incluso il rame, una della principali fonte di ricchezza del Paese, in mano alle grosse multinazionali.

No+AFP e No TPP11

Un altro punto importante è cambiare il sistema pensionistico, oggi in mano agli enti privati delle AFP. Quotate in borsa, gli investimenti di queste aziende vanno alla grande ma le pensioni percepite dai cileni sono misere. Nel caso degli uomini può arrivare al 38% dello stipendio medio, per le donne non supera il 28%, con pensioni che arrivano appena a 100€.

L’attuale sistema prevede che sia lo stesso dipendente a finanziare direttamente la sua pensione, senza l’intervento del datore di lavoro e/o lo Stato. Le AFP sono aziende che funzionano come banche e sono solo sei. Appartengono agli uomini più potenti del Cile – Luksic, Solari, Angelini e Paulmann – e sono diventati un vero oligopolio, fissando i prezzi per cancellare qualunque concorrenza, utilizzando i fondi delle pensioni per espandere la loro ricchezza.

Da più di qualche anno diversi settori sociali e politici si sono uniti per chiedere un sistema di pensioni più eque e con la partecipazione attiva dello Stato, ponendo fine a un sistema privato basato sul lucro. Il movimento No+AFP, nato più di dieci anni fa, oggi è uno dei principali protagonisti nelle piazze cilene.

Si lotta anche contro il TPP11 (Accordo di associazione transpacifico), un patto economico tra undici paesi dell’Oceano Pacifico: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore, Perù e Vietnam. Il principale scopo dell’accordo è di ridurre il raggio d’azione dello Stato nell’economia di ogni paese, con un protezionismo corporativo e restringendo il più possibile le attività delle aziende pubbliche.

L’accordo, in attesa del via libera dal Senato, non solo comprende materie economiche ma tocca anche i diritti sociali, privatizzando ancora ulteriormente educazione, salute e cultura nei paesi che vi aderiscono. Riguardo pesca e agricoltura, impone un sistema produttivo industriale che non rispetta l’ambiente, lasciando il controllo dei semi ad aziende come la Bayer-Monsanto. Il trattato rappresenta un pericolo anche per le comunità indigene, che fino a oggi sono state vittime di genocidio e persecuzione da parte di più di un governo nei 200 anni di storia del Cile.

In Cile si protesta da giorni, radunando più di un milione di persone a Santiago, riempiendo ogni giorno le strade in tutto il paese. Alla data di oggi (2 novembre) le cifre ufficiali parlano di almeno una ventina di civili morti, qualcuno assassinato a colpi di pistola dai militari oppure in “circostanze poco chiare” quando le vittime erano sotto loro custodia. Sono oltre quindici le denunce per molestie sessuali e più di cento per torture, ormai sono in migliaia i feriti e detenuti. Il Governo continua a non ascoltare le domande dei manifestanti, ha cambiato qualche Ministro ma non ha ancora dato una risposta ai cileni.

Nonostante Piñera abbia dichiarato la fine dello Stato di Emergenza, la repressione violenta dei militari continua nelle strade del Cile, ma questo non fa altro che unire ancora di più il popolo contro i suoi oppressori.

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Nicaragua-Cile: la democrazia in azione.

Articolo comparso su Umanità Nova, 3 Novembre 2019

A partire dai primi anni ‘80 del ventesimo secolo, la democrazia è stata accolta e inneggiata in America Centrale e Meridionale come una liberazione da dittature o regimi militari-familistici-clientelari. Anni di soprusi e di privazioni sono stati – in apparenza -, spazzati via, favorendo delle sperimentazioni di autogestione e di creazione di gruppi antisistemici.
Simili sperimentazioni e creazioni all’interno di territori dominati da strutture di potere sociali ed economiche – vogliose di riprendere vigore dopo le crisi dittatoriali – non potevano essere tollerate a lungo.
Seguendo la logica gattopardesca riassumibile nella celebre espressione “se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, [1] il dominio burocratico e borghese, riciclatosi come “democratico”, per poter continuare a mantenere i propri privilegi – in modo da sfruttare le risorse agricole, minerarie e petrolifere e arricchirsi grazie ai mercati internazionali – ha adottato delle forme di liberalizzazioni e delle misure welfaristiche atte ad aumentare leggermente il benessere di chi veniva sfruttato.
Al tempo stesso, il dominio si è impegnato ad applicare delle repressioni culturali e poliziesche – benedette dalla Chiesa! – contro l’ “eccessiva” difesa dei diritti lavorativi (ovvero se ledono i guadagni milionari delle classi dominanti), gli esperimenti auto-gestionari delle popolazioni native e la volontà di autodeterminazione delle donne e di soggettività non eterosessuali.
Questa tattica da “carota e bastone” si può definire come il perno vitale e principale su cui si basano non solo le “democrazie” sudamericane ma qualsiasi democrazia esistente in questo mondo.
Scriveva Malatesta in “Democrazia e Anarchia”:
“Non v’è dubbio che la peggiore delle democrazie è sempre preferibile, non fosse che dal punto di vista educativo, alla migliore delle dittature. Certo la democrazia, il cosiddetto governo di popolo, è una menzogna, ma la menzogna lega sempre un po’ il mentitore e ne limita l’arbitrio ; certo il « popolo sovrano » è un sovrano da commedia, uno schiavo con corona e scettro di cartapesta, ma il credersi libero anche senza esserlo val sempre meglio che il sapersi schiavo ed accettare la schiavitù come cosa giusta ed inevitabile. La democrazia è menzogna, è oppressione, è in realtà oligarchia, cioè governo di pochi a benefizio di una classe privilegiata […].” [2]
Se la critica alla democrazia è abbastanza chiara – tranne per chi ci crede perché o ha dei privilegi da difendere oppure ha timore del vuoto che si viene a creare -, cosa accade quando la democrazia non riesce più a soddisfare i bisogni di chi viene sfruttat*? I più risponderebbero “si andrebbe verso una svolta autoritaria” o “verso il fascismo”. Queste risposte sono degli errori grossolani perché “non si va verso” un qualcosa; semplicemente il regime democratico, per difendere la sua struttura di poteri e privilegi, estende la violenza di sistema che, fino a quel momento, era rivolta principalmente ad una fetta di popolazione considerata inferiore (popolazioni native, donne e soggettività non eterosessuali) e/o buona per essere sfruttata (lavoratori/lavoratrici).
Quello che accade nell’ultimo mese in America Centrale e Meridionale, quindi, non è fascismo, ne è dovuto all’onnipresenza dell’ “imperialismo yankee”: è la democrazia in azione.

Nicaragua. Somoza e Ortega, nemici giurati ma amici della borghesia
Con l’affermazione di Ortega Saavedra e del Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) nelle elezioni del Novembre 1984, il Nicaragua ha avviato un processo di ripresa economica [3] dopo i disastri provocati dalla dittatura dei Somoza.
Gli accordi dei governi democratici nicaraguensi con le multinazionali hanno portato ad un aumento delle esportazioni dell’oro e dei prodotti agro-alimentare (carne bovina, caffè, zucchero di canna e arachidi) [4], oltre a concedere permessi di ricerca petrolifera. [5]
Tra tutti questi prodotti, la dirigenza statale e borghese nicaraguense ha un occhio di riguardo allo sfruttamento dell’oro – in quanto il mercato è in forte rialzo [6] -, favorendo o potenziando aziende come Hemco Mineros Nicaragua S. A. (filiale della colombiana Mineros S.A.), B2Gold e Royal Road Minerals (al cui interno vi è la multinazionale Barrick Gold).
Secondo Victor Campos, ingegnere e direttore del Centro Humboldt, le compagnie minerarie presenti in Nicaragua “hanno decretato che il loro punto di pareggio è di circa 700 dollari per oncia d’oro. E poiché i prezzi internazionali dell’oro attualmente ammontano a $ 1300 per oncia troy, se spendono 700 per estrarre un’oncia e la vendono a 1300, hanno profitti del 100%. Tenendo conto del fatto che in Nicaragua vengono prodotte 300 mila once ogni anno, stiamo parlando di profitti molto importanti,” [7] aggiungendo come le compagnie minerarie, in conformità con l’articolo 71 de la Ley n. 387 o “Ley Especial sobre Exploración y Explotación de Minas” del 2001 [8], diano il 3% di royalties per qualsiasi minerale esportato. [7]
Lo sfruttamento aurifero e agro-alimentare sono agevolati dalla Ley n. 344 “Promoción de inversiones extranjeras” del 2000 [9] e dalla Ley n. 540 “Mediación y Arbitraje” [10]; queste leggi permettono alle aziende nicaraguensi e straniere di poter ottenere protezione e perdite irrisorie o comunque contenute.
Per anni i governi democratici nicaraguensi sono riusciti ad ottenere enormi privilegi e guadagni, contenendo le proteste delle popolazioni native e tenendo al laccio, grazie all’onnipresenza della Chiesa Cattolica, le donne e le soggettività non eterosessuali.
A partire dal 2013, l’Instituto Nicaragüense de Seguridad Social (INSS) – ente che gestisce il sistema pensionistico, l’assistenza sociale e i servizi sanitari -, è entrato in un deficit che è aumentato considerevolmente.
Il governo di Ortega Saavedra, per mantenere i buoni rapporti con il Fondo Monetario Internazionale – che in Nicaragua è rappresentato da Fernando Delgado – ed evitare un crollo economico pericoloso per gli investimenti in corso, ha approvato un pacchetto ad hoc di riforme del sistema previdenziale nell’Aprile del 2018.
A quel punto, gli anni di sopportazioni ed umiliazioni subiti sono scoppiati in una rabbia incontenibile. Per la seconda volta nella sua storia democratica [11], il governo ha dimostrato con i morti e i tentativi maldestri e ignobili nel contenere le proteste come la “democratizzazione della società nicaraguense” fosse una favoletta buona per nascondere la candida faccia della dittatura di classe.
Lo slogan di protesta “Ortega y Somoza son la misma cosa!” centra in pieno la funzione della democrazia nel paese centroamericano.

Cile. Pinochet never die.
La “Transición a la democracia” o “Retorno a la democracia” in Cile tra il 1988 e il 1990 [12] ha portato alla creazione dellla “Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación” (CNVR) [13] e della “Corporación Nacional de Reparación y Reconciliación”. [14]
Il tentativo della democrazia cilena – nata dalla crisi dittatoriale militare – nel riconciliare il paese con questi due strumenti è stato fatto, principalmente, per preservare i privilegi borghesi e militari. La dimostrazione si è avuta con i primi interrogatori del CNVR agli ufficiali dell’esercito e dei carabineros: questi, con in testa l’allora comandante in capo dell’esercito, Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, spiegarono che il loro operato era stato per salvaguardare la pace del Cile [15] e i tentativi di discredito al personale militare poteva avere effetti tragici [16] – e impedendo de facto la riconciliazione nazionale.
Il “compromesso democratico” ottenuto era – e lo è tuttoggi – una beffa non solo per i/le sopravvissut* alla dittatura militare ma anche per le popolazioni native (in particolare mapuche) e per tutti/e i/le lavoratrici.
Gli arricchimenti delle aziende come, per esempio, la Corporación Nacional del Cobre de Chile (CODELCO) -azienda mineraria che si occupa dello sfruttamento di rame e molibdeno -, la Empresas Copec S.A e l’AntarChile S.A. – due holding di proprietà del Grupo Angelini -, o l’ENEL sono stati possibili grazie a leggi ad hoc come la Ley n. 18.314 “Determina conductas terroristas y fija su penalidad” [17] e il Decreto Ley n. 600 sugli investimenti [18], senza dimenticare il progetto di legge – in fase di discussione – “sobre modernización laboral para la conciliación, familia e inclusión” del Maggio 2019 [19]
Alla luce di tutto questo, le proteste di questi giorni in Cile sono scoppiate non tanto per un aumento del biglietto dei trasporti ma per delle violenze economiche e sociali che i governi democratici hanno sostenuto apertamente nel corso dei decenni.
E difatti la risposta contro questa serie di cose qual è se non la dichiarazione di uno stato di emergenza atto a confermare il potere borghese e militare presente in Cile?
Pinochet in Cile non è mai morto: lo ritroviamo sia nelle facce dei carabineros che stuprano, torturano e uccidono che nei tanti Scrooge McDuck cileni e stranieri!

 

Note
[1] Tomasi di Lampedusa Giuseppe, “Il Gattopardo”, Milano, Feltrinelli, 2005. La frase è un estratto dal dialogo di Tancredi al Principe di Salina.
[2] Pensiero e Volontà, numero 6, 15 Marzo 1924. L’articolo è riportato nel terzo volume del libro curato dal Movimento Anarchico Italiano, “Errico Malatesta. Pensiero e volontà. Scritti 3 Volume. Pensiero e volontà e ultimi scritti 1924-1932”, Carrara, 1975, pagg. 45-49
[3] Come dimostrato dal Report del Fondo Monetario Internazionale, il Nicaragua ha avuto un incremento del Prodotto Interno Lordo dal 1985 al 2017 (passando da 3.854 miliardi a 13.814 miliardi di dollari).
Link: https://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2019/01/weodata/weorept.aspx?pr.x=61&pr.y=7&sy=1985&ey=2017&scsm=1&ssd=1&sort=country&ds=.&br=1&c=278&s=NGDP_R%2CNGDPD&grp=0&a=
[4] Dati del Centro de Trámites de las Exportaciones (CeTrEX). Link documento https://mega.nz/#!jE5jBSAb!g_ZOUDtaDQA5YaVTo6crPP0_dnGy4dBEu2jewjc8sLY )
Il CeTrEx è un ente creato con il Decreto Presidenziale 30-94 del 28 giugno 1994. Lo scopo del CeTrEx è quello di monitorare le esportazioni e riportare i dati alla Comisión Nacional de Promoción de Exportaciones (CNPE) – composto da figure istituzionali e imprenditoriali.
[5] Come dimostrato dagli accordi tra il Ministerio de Energía y Minas e la Petronic (azienda petrolifera di Stato nicaraguense) con l’americana Noble Energy, la spagnola Repsol, la norvegese Equinor (ex Statoil) e la canadese Union Oil&Gas Group Corp (UOGG).
[6] Link: https://goldprice.org/it/spot-gold.html
[7] Nicaragua“Con el modelo extractivista crecemos, pero, ¿nos desarrollamos? Y con la minería ni crecemos ni nos desarrollamos”.
Link: https://www.envio.org.ni/articulo/5364
[8] Link: http://legislacion.asamblea.gob.ni/Normaweb.nsf/($All)/7327AE61D5AC25B4062570A100581176?OpenDocument
[9] Link: http://legislacion.asamblea.gob.ni/Normaweb.nsf/($All)/A5C6D6F25A6B2C7C06257213005F7EBC?OpenDocument
[10] Link: http://legislacion.asamblea.gob.ni/Normaweb.nsf/($All)/D0489E6135592D16062570A10058541B?OpenDocument
[11] La “prima volta” fu ai tempi della Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional (1979-1985). Il varo di leggi contro lo sciopero e di potenziamento dell’esercito (grazie ai contributi sovietici e cubani) servirono, ufficialmente, per impedire agli Stati Uniti di Reagan e i suoi alleati Contras di abbattere il governo democratico. In realtà questi leggi servirono per dare linfa vitale alla borghesia, anche a costo di passare sulle popolazioni native e sui/sulle lavoratori/lavoratrici.
[12] Il periodo della transizione avvenne tra la sconfitta del “Plebiscito nacional de Chile” del 1988 e l’elezione a presidente di Patricio Aylwin Azócar della coalizione “Concertación de Partidos por la Democracia” (Demócracia Cristiana (DC), Partido Por la Democracia (PPD), Partido Radical Socialdemócrata (PRSD) y Partido Socialista (PS)) del Gennaio 1989.
[13] Istituita con il Decreto n. 355 del 1990, la Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación (chiamata anche “Informe Rettig” (dal nome di Raúl Rettig Guissen, giurista ed ex ambasciatore del governo Allende in Brasile)) aveva il compito di documentare le violazioni dei diritti umani avvenuti durante il regime di Pinochet.
Link: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=12618&idVersion=1992-07-08
[14] Istituita con la Ley n. 19123 del 1992 , la Corporación Nacional de Reparación y Reconciliación aveva il compito di promuovere, eseguire e coordinare le direttive presentate dalla Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación.
Link: https://www.usip.org/sites/default/files/file/resources/collections/commissions/Chile90-ReparationLaw_no19.123.pdf
[15] Vedasi la “Declaraciones de Pinochet”, pagg. 2-8.
Link: http://www.archivospublicos.cl/uploads/r/archivo-institucional-universidad-alberto-hurtado/9/2/a/92a02196dd20675342c0ae51f851db54332c568fe836406921a3a27cb4a87b02/86-1-1.pdf
[16] Documento 007062, “Carta del Comandante en Jefe Augusto Pinochet al Presidente Aylwin”, Archivo Corporación Justicia y Democracia
[17] Promulgata nel 1984, venne modificata diverse volte dai governi democratici fino al 2011; con questa legge, i carabineros hanno potuto commettere diverse violenze contro la popolazione nativa mapuche presenti in Araucanía – territorio dove sono presenti giacimenti di oro, ferro, carbone e alluminio – e contro gli/le studenti universitari e delle scuole superiori.
Link: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=1026712&idVersion=2011-06-21
[18] Promulgata nel 1974 e abrogata nel 2014, permetteva agli investitori stranieri di poter avere libero accesso al mercato cileno. Link: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=5590
La Ley n. 20848 “establece marco para la inversiòn extranjera en Chile y crea la institucionalidad respectiva” del 2015 sostituisce il DL 600, garantendo agli investitori stranieri di avere libero acceso ai mercati, investire gli utili in imprese terze e la possibilità di ritiro immediato dei capitali qualora si generino dei profitti. Link: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=1078789
[19] Con questa legge, Sebastián Piñera vuole stabilire una maggiore flessibilità per la giornata lavorativa; in realtà è una misura che porta alla precarietà e all’aumento del carico di lavoro, portando i/le lavoratori/lavoratrici ad accettare pronamente i diktat padronali.
Link: https://www.camara.cl/pley/pley_detalle.aspx?prmID=13157&prmBoletin=12618-13

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Sicilia, Musumeci e migranti

Foto d’annata di due fascisti: il vecchio in decomposizione e il nuovo che avanza. Verso la decomposizione!

 

Durante l’ “Orgoglio Italiano” di Piazza San Giovanni a Roma del 19/10, il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci, coerente con le sue idee e il suo passato fascistoide, si scaglia contro i migranti e il governo di sinistra colpevole di aver ridotto la Sicilia ad un campo profughi e di spremerla con le tasse.
I tentativi di Musumeci di partecipare ad eventi nazionali (“Raduno di Pontida” del 1/07/2018, “Festa dell’UDC” a Fiuggi del 15/09/2019 e il citato “Orgoglio Italiano”) dimostrano come in teoria cerchi di ricucire un centro-destra (e presentarsi come una sorta di “ago della bilancia del centro-destra”); in realtà Musumeci vuole salvare il suo governo regionale dai debiti accumulati dalle precedenti amministrazioni e dallo scarso sostegno della borghesia locale – nonostante questi abbiano attinto i finanziamenti PON-FESR 2014-2020.
Gli spauracchi “migranti/tasse alte” e il potenziamento dell’industria turistica sono armi vincenti ma non bastano. Per avere dei risultati apparentemente duraturi e stabili in un territorio che, strategicamente parlando, è importante per controllare l’area mediterranea – ed un eventuale vuoto politico sarebbe molto pericoloso -, si riescono a comprendere determinati rapporti tra il governo regionale e le borghesie finanziarie “straniere” (maltesi, arabe e cinesi) e l’industria petrolifera (nel cui mezzo c’è ENI, Sonatrach (Algeria) e Lukoil (Russia)).
La campagna elettorale permanente di Musumeci e alleati è, quindi, in funzione di mantenere determinate stabilità e alleanze economiche.
Anche a costo di sacrificare dei/delle “negri/e”.

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Medioriente – Quanto resta della notte?

Articolo pubblicato su Umanità Nova numero 29 anno 99 e su Photostream

Un anno e mezzo dopo l’offensiva che ha portato all’occupazione di Afrin, occupazione che ha visto per l’altro il sorgere ed il dispiegarsi di una forte guerriglia di opposizione, lo stato turco cerca di chiudere una volta per tutte la partita in Rojava.
Dopo mesi di preparazione e subito dopo l’annuncio del presidente statunitense Trump circa il ridislocamento delle forze del Pentagono presenti nell’area, l’aviazione e l’artiglieria turca hanno iniziato i bombardamenti dei villaggi e delle città nel Rojava mentre colonne corazzate sono penetrate di circa cinque chilometri nel territorio curdo-siriano sotto il controllo del PYD e delle SDF.
Contemporaneamente milizie islamiste non ufficialmente legate allo stato Turco, quindi più libere di compiere massacri ed al contempo maggiormente sacrificabili, hanno fatto il lavoro sporco fornendo la forza d’urto sul fronte e compiendo attacchi nelle retrovie.
L’azione dello stato turco non era più rimandabile nella logica di Erdogan. La pluriennale crisi economica che ha molato i denti della tigre anatolica rischia di trasformarsi in recessione conclamata, soprattutto se gli attriti sempre più forti nel Golfo Persico portassero a un’impennata nel prezzo del greggio. Anni di guerra civile in Bakur, dove per altro l’insurrezione non si è ancora placata, non hanno aiutato anche se il blocco di affaristi del cemento che sostiene Erdogan sta facendo affari con la ricostruzione delle città, in molti casi vere e proprie operazioni di ingegneria demografica.
Il ricorso al nemico esterno è sicuramente un buon diversivo per la pubblica opinione e probabilmente c’è chi spera che funga da volano per l’economia, il settore militare divora un 2% abbondante del PIL – anche se siamo lontani dal 4,5% degli anni novanta non è poco – le commesse militari fanno gola e sono sempre buona occasione per arricchirsi per la borghesia anatolica.
Il progetto neo-ottomano di Erdogan consiste nel creare un corridoio a sud, penetrando in Siria, scalzando Assad e la sua cricca rafforzando, nel contempo, la propria presenza nel Caucaso e nelle aree musulmane dei Balcani dove proporsi come protettore nell’eventualità di eventuali rigurgiti sciovinisti serbo-croati, tutto ciò aumentando la propria capacità di proiezione nel Mediterraneo, è in stallo da anni.
I rovesci della guerra civile siriana, il crollo dello Stato Islamico, la tenuta del regime di Assad e la necessità di trovare una forma di collaborazione con la Russia putiniana dopo il pericoloso deteriorarsi delle relazioni bilaterali tra i due paesi, hanno portato la Turchia in una posizione isolata.
Contemporaneamente all’assedio di Kobane da parte dell’ISIS, finanziato e sostenuto a tutti i livelli dalla Turchia, anche tramite l’acquisto di enormi quantità di petrolio di contrabbando e la fornitura diretta di materiale bellico, intelligence ed approvvigionamenti, vi è stata l’insurrezione del Bakur. Un’insurrezione che nei suoi risultati immediati è stata vittoriosa: ha costretto il governo turco ad aprire la frontiera ai profughi curdo-siriani, alleggerendo la situazione umanitaria in Rojava ed a fare transitare gli aiuti militari internazionali verso Kobane. Uno smacco enorme per Erdogan. I sogni della borghesia di Ankara di porsi come paese egemone a livello sovra regionale sono stati frustrati. Con questa operazione Erdogan probabilmente si gioca il tutto per tutto.
Se, come auspicabile, la forza armata turca fallirà nell’operazione lampo che dovrebbe permettere di respingere permanentemente di almeno quaranta-cinquanta chilometri le forze dell’SDF dalla frontiera, il governo di Erdogan rischierà di trovarsi impantanato in un Vietnam (o in un Afghanistan) in salsa siriana.
Di fronte ad una crisi economica difficilmente contenibile e con la spada di Damocle di un’imminente impennata dei prezzi delle commodities energetiche, per l’aggravarsi della crisi nella faglia del Golfo, sostenere il peso di una guerra di logoramento potrebbe innescare una pesante crisi interna. La piccola borghesia che fino a ora ha sostenuto l’AKP potrebbe rivoltarsi e le stesse forze armate potrebbero, nonostante le pesanti purghe degli ultimi anni, dimostrarsi meno collaborative del dovuto.
Erdogan ha sì un forte consenso interno ma è un consenso polarizzato: milioni di turchi lo votano ma altri milioni lo vorrebbero vedere volentieri scomparire dalla scena politica e non pochi lo espellerebbero volentieri dal consorzio umano. La politica di appeasement verso la Russia, che è stata una scelta obbligata per non aprire uno scomodo fronte diplomatico contro Mosca – ma anche militare vista la posizione del governo di Putin sulla questione siriana – ha portato a un deterioramento delle relazioni con l’asse atlantico. Lo stesso Israele, da decenni vicino diplomaticamente e militarmente alla Turchia, vede con sempre meno simpatia il governo di Ankara.
Erdogan è un giocatore d’azzardo: quando è in difficoltà rilancia. Ma il suo è un gioco pericoloso, un giocatore con una migliore mano di carte potrebbe decidere di vedere e il bluff a quel punto sarebbe palese. C’è chi vedrebbe volentieri la Turchia impantanata nel Rojava e potrebbe decidere che fornire supporto di intelligence e di forniture militari – ovviamente sottobanco – al PYD e alle SDF sarebbe una buona mossa. Sicuramente Damasco vuole recuperare a sé le aree curdo-siriane. In cambio di un alleggerimento delle richieste di autonomia dal governo centrale potrebbe agire effettivamente come protettore di un territorio su cui teoricamente avrebbe la sovranità. A quel punto per Ankara la partita si complicherebbe sul piano militare.
Potrebbe perdere ma paradossalmente vincere: sconfitta sul campo da un non sostenibile sforzo bellico ma vittoriosa nel fine di impedire la realizzazione di un territorio autonomo curdo. Ma sarebbe, a ogni modo, una sconfitta per Ankara – se vince il nemico del tuo nemico non vinci automaticamente tu – come lo sarebbe per il PYD e il suo progetto di una Siria secolarista, democratica e federalista: Damasco ne risulterebbe il vero vincitore. Insieme a Teheran che, pur condannando l’aggressione turca, vede come fumo negli occhi l’autonomia del Rojava che intrattiene fraterni rapporti con il PJAK, il ramo iraniano dell’indipendentismo curdo, che ha fatto sue le teorie apociste. Il progetto del Confederalismo Democratico, in ogni modo, non ne uscirà indenne, come non è uscito indenne dalle prove che ha dovuto affrontare in questi anni.
L’insorgenza siriana del 2012, che è coeva alle altre primavere arabe, ha le sue origini in un decennio di smantellamento in senso neoliberale delle strutture pubbliche che, fornendo aiuti materiali alle classi popolari sotto forma di sussidi economici o distribuzione diretta di beni di prima necessità – cibo ed acqua, principalmente – sancivano il patto sociale che era in vigore dagli anni ’60, cioè quando i governi impiantanti dalle ex potenze coloniali erano stati spazzati via dai colpi di stato militari – ma di militari modernisti – in Siria ed Egitto. Crollato il patto sociale socialnazionalista – ed in certi momenti panarabo – le forze centrifughe hanno prevalso: la questione di classe, largamente nascosta anche in molte analisi fatte da sinistra, è esplosa al pari della questione delle varie identità culturali che sono state schiacciate sotto progetti di arabizzazione forzata: vi è il problema, questo tipicamente siriano, del rapporto tra alauiti e sunniti, con la complicazione del rapporto tra alauiti e sciiti, i quali hanno riconosciuti gli alauiti come musulmani esclusivamente per ragioni politiche.
L’insorgenza siriana è nata sulle parole d’ordine di una società maggiormente libera e con meno divario sociale ed è finita schiacciata sotto il martello della repressione militare di Damasco. La reazione islamista ha avuto gioco facile nell’imporsi come principale opposizione ad Assad che, per altro, preferiva grandemente avere come nemico principale degli impresentabili tagliagole islamisti che partiti ed organizzazioni laiche e di sinistra. Così facendo si è riciclato come baluardo contro l’islamismo sunnita e si è garantito una continuità nel potere che non sarebbe stata altrimenti scontata. Le organizzazioni curdo-siriane in quella situazione hanno pensato di poter fare il loro gioco tirandosi fuori per alcuni anni dalla mischia con un accordo di non belligeranza con il regime di Damasco – che è il motivo per cui quello che rimane dell’opposizione laica e di sinistra ad Assad non vede con simpatia le istanze portate avanti in Rojava – per ricavarsi lo spazio geografico per l’esperimento di Confederalismo Democratico.
Progetto molto interessante sulla carta ma viziato nella pratica da diversi problemi, alcuni imputabili a quello che è stato un errore strategico dettato dall’opportunità – il patto di non belligeranza con il regime che ha portato alla forte ostilità di altre componenti dell’insorgenza – altri dovuti dal fatto che l’attacco del 2014 da parte dello Stato Islamico ha costretto ad un’innaturale alleanza con delle forze imperialiste che seguivano le loro agende e che hanno usato i curdi siriani come fanteria legandoli a sé. Non che il PYD non se ne rendesse conto ma oramai era in ballo e doveva ballare. Ora si trova tra il martello dell’aggressione turca e l’incudine del dovere probabilmente accettare un accordo svantaggioso con il governo di Damasco che nel frattempo ha recuperato, grazie a russi e iraniani, molto terreno.
Il riflusso dell’insorgenza Turca di Gezi Park, la pesante repressione in Bakur, la mancata saldatura tra l’insorgenza sociale urbana di Istanbul e la questione di classe nei centri minori dell’Anatolia, dove pure il proletariato impegnato in settori come quello minerario, edile e manifatturiero ha dato prova di una certa combattività, il tentativo di colpo di stato dei generali del luglio 2016 che ha rafforzato il potere dell’AKP, tutti questi fattori hanno contribuito a rendere difficilmente attuabile l’estensione del modello democratico-confederalista nel Bakur, che sarebbe stata la garanzia per la tenuta del progetto. La scommessa dell’HDP di poter giocare pulito per via elettorale nel Bakur è stata persa: rafforzatosi il potere dell’AKP i sindaci delle municipalità controllate dall’HDP sono stati rimossi, perseguitati e arrestati.
Il progetto stesso del confederalismo democratico paga le conseguenze di alcuni problemi di fondo: un’organizzazione sociale che, se pur estremamente avanzata, non affronta compiutamente la questione di classe nei territori dove è riuscita vittoriosa, le circostanze della sua nascita stessa, ovvero la non belligeranza con il regime di Damasco nel momento in cui questo stava per collassare, il residuale etnicismo curdo, l’essersi dovuto legare obtorto collo all’agenda imperialista statunitense e in certi periodi russa in Siria.
La guerra contro i tagliagole islamisti dell’ISIS ha costretto il PYD e le SDF a porsi sotto l’ombrello di questa o quella compagine imperialista agendo anche fuori dei territori in cui il progetto democratico-confederalista era nato e aveva il supporto di massa. La battaglia di Raqqa che ha visto il tramonto del dominio territoriale dello Stato Islamico, che da Stato in pectore è tornato ad essere una compagine senza terra, ha visto pagare un prezzo altissimo alla popolazione di Raqqa. La narrazione epica non regge al confronto con la materialità. I bombardamenti da parte della Coalizione Internazionale su Raqqa hanno causato un’enorme numero di morti tra la popolazione civile, la stessa popolazione che veniva schiacciata sotto il dominio islamista è stata bombardata per mesi dall’aviazione della Coalizione. Allo stesso identico modo in cui i quartieri operai di Amburgo, Colonia, Torino, Milano e Roma venivano bombardati dall’aviazione Alleata durante il secondo conflitto mondiale.
Il paragone non è casuale: i conflitti inter-imperialistici vedono pagare il più alto prezzo da parte dei proletari stessi. Le narrazioni affabulatorie possono fornire giustificazioni a posteriori ma vanno dissezionate. La superficie va divelta e bisogna guardare nell’abisso che si apre al di sotto di essa. La coerenza del programma rivoluzionario non permette cedimenti, non fornisce scuse per tatticismi. La logica del male minore la lasciamo volentieri alla retorica di “danni collaterali” cara al gioco al massacro delle guerre umanitarie. La tattica deve essere subordinata alla strategia.
La sperimentazione del modello del confederalismo democratico in Rojava ha dato importanti risultati. Ha permesso di infliggere pesanti colpi alla società patriarcale in quelle terre, ha aperto spiragli nella cappa di piombo degli stati-nazione. Ha aperto una sfida importate. Ha impostato un’economia di stampo cooperativistico, un risultato intermedio comunque non indifferente. Ha messo in crisi profonda il monopolio della violenza caro ai sovranisti, non a caso tutti innamorati di Assad e della sua cricca di criminali. Si è scontrato però contro i limiti dati da rivoluzioni appena abbozzate e fallite in Siria e Turchia e con il tatticismo della non belligeranza verso Damasco prima e del legame troppo stretto con le agende delle classi dominanti statunitensi e russe. Tatticismi di certo non desiderati ed imposti ma che hanno minato il progetto. La situazione di guerra ha minato il processo di avanzamento sociale, fermare la guerra significa riaprire uno spiraglio che dia spazio all’azione di quanti si muovono verso la costruzione di una società altra. La guerra contro lo Stato Islamico e contro lo stato turco ha fatto cadere sul campo migliaia di compagni, tra cui decine di volontari internazionali accorsi per partecipare a un progetto che, pur con i limiti e le contraddizioni che abbiamo evidenziato, ha rappresentato un importante passo nella direzione della costruzione di una società radicalmente avversa al mondo vigente. Passi parziali e in certi momenti incerti, passi che si sono mossi in un contesto irto di pericoli ma, comunque, un generoso tentativo che ha rilanciato la scommessa contro lo stato e il capitale.
Ora che i venti di guerra si rafforzano – di certo non hanno mai smesso di soffiare – sul Rojava è necessario creare un’ampia mobilitazione internazionale dal basso che metta i bastoni tra le ruote dell’invasione da parte dello stato turco. Coloro che sono nella posizione per bloccare i piani criminali di Ankara sono gli stessi proletari turchi che potrebbero porre fine al gioco al massacro, che ricadrà su loro stessi dato che di certo non sono le famiglie dell’oligarchia dell’AKP a fornire i soldati che moriranno, abbattendo il regime di Erdogan. L’esempio della Prima Guerra Mondiale ha mostrato, in Germania come in Russia, che il disfattismo rivoluzionario, l’ammutinamento, la diserzione, lo sciopero possono attivamente fermare massacri che i governi vogliono portare avanti per conto dei loro mandanti.
La Turchia è un paese NATO e le sue forze armate sono integrate nel sistema militare atlantico. L’Italia è uno uno dei maggiori fornitori di tecnologie belliche per il paese anatolico – si pensi agli elicotteri Mangusta – dunque le fabbriche di questi sistemi d’arma si trovano sul territorio italiano. Rilanciare la mobilitazione antimilitarista in Italia, come in tutti i paesi, significa aiutare concretamente chi si trova a combattere sul campo il tentativo di genocidio messo in atto da Ankara. Quest’anno si terrà, a Torino, il biennale European Defence Meeting, la fiera di settore – rigorosamente aperta solo ad appartenenti a chi agisce nel campo bellico – e questa può essere una buona occasione di mobilitazione, che sta già venendo organizzata. Anche lo sciopero generale del sindacalismo di base del 25 ottobre deve diventare occasione di rilancio della mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici contro le politiche di guerra.
La guerra, con i suoi cicli di distruzione e creazione di merce, è centrale per il processo di accumulazione capitalista, denunciare questo fattore è fondamentale per la nostra azione.
La linea di faglia del Golfo è sempre più tesa, il rischio di una conflagrazione sovra-regionale è dietro l’angolo. Il prezzo della guerra lo pagheranno i proletari di tutto il mondo. Alcuni lo pagheranno venendo massacrati in guerra, altri lo pagheranno con una riedizione della crisi petrolifera. Come è sempre stato e come sempre sarà fintanto che non verranno smantellate le fondamenta stesse di un’organizzazione sociale basata sull’accumulazione di capitale, sul dominio, sul patriarcato, sugli stati.

 

Lorcon e J.R.

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A sostegno della Chimera @Live Concert Muluni e Cantalupo (26 Ottobre, Catania)

In collaborazione col Baraccio , Concerto di autofinanziamento per il gruppo anarchico Chimera

Il gruppo Anarchico Chimera si è formato circa un anno fa dall’unione di diverse individualità anarchiche presenti a Catania
vogliamo costruire, attraverso il mutuo appoggio, la solidarietà e l’azione diretta, dei percorsi di autogestione come la creazione di strutture di autoreddito, la possibilità di abitare liber* da palazzinari, da banche e da strutture burocratiche e di mangiare tutti i giorni e il più possibile fuori dai meccanismi neoliberisti.

L’evento serve a coprire le spese per la gestione di una Sede

CENA VEGANA
Lasagne vegane
Risotto alla crema di zucca

Distribuzione di materiale anarchico

BIOGRAFIA :
Muluni è frutto genuino della terra.
Poco importa se sia stata concimata da letame fumante o dalle scorie radioattive delle falde acquifere. Quello che importa è l’inequivocabile sostanza.
Già attivo come bassista in alcune formazioni musicali (Bestiame, Gurkha, Bad Lights, Suffuru, Claudio Palumbo e Bottarga Girls, When Sea Changes) il nostro decide di impugnare la chitarra acustica e di offrirci uno spaccato quantomai intimo ed inedito della sua musica.
Il risultato è una miscela esplosiva di impulsivo twee pop e folk punk.
Dopo una breve pausa, impegnato in altri progetti musicali, Muluni decide di riprendere in mano le sorti delle sue canzonette e ad Aprile del 2019 consegna ai posteri il suo primo lavoro solista, ovvero l’EP “Mi vida es un pollo fritto”, edito per Golden Catrame.
Attualmente il nostro sta lavorando alla sua seconda produzione, “Latin hater”, e ad un progetto hip hop con un altro esponente della Golden Catrame, Brain?, senza mettere mai di lato il suo basso grazie al quale collabora e cazzeggia allegramente con altri musicisti…
L’unica cosa certa è che Muluni rappresenta per se stesso l’occasione di rifarsi un’innocenza perduta o probabilmente mai avuta!

Marco Janza aka Cantalupo è una cucurbitacea, cantautore in grado di suonare da solista con la sua chitarra ed entrarti dentro, appassionarti e scioglierti l’anima con il suo suono pieno di cose.
ll cantalupo ha all’attivo un EP uscito nel dicembre del 2018 “ Allerta meteo” ed un album uscito poche settimane fa dal titolo “Il mio ultimo Limone”

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Serkeftin. Solidarietà ai popoli del Rojava!

 

Testo del volantino

“Ogni proiettile, ogni bomba contro i popoli oppressi,prende di mira la libertà.
Ogni guerra che prende di mira la libertà è condannata alla sconfitta.
Ogni Stato che lotta contro i popoli perderà!” (Revolutionary Anarchist Action)

“E’ proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. Ogni tempesta comincia con una goccia. Cercate di essere voi quella goccia”
(Orso)

A partire dal 2012, la regione autonoma del Rojava ha ospitato un entusiasmante esperimento multietnico di autodeterminazione e autonomia delle donne, il tutto mentre combatteva lo Stato islamico (ISIS). Dopo anni di lotte, e nonostante le massicce vittime, i combattenti del Rojava hanno partecipato alla liberazione di tutto il territorio che l’ISIS aveva occupato, liberando coloro che erano prigionier*.
Erdogan, e soprattutto il MÜSİAD (l’Associazione degli industriali e uomini d’affari indipendenti) e la Turkish American National Steering Committee (TASC), sono riusciti a trovare un accordo con l’attuale amministrazione americana per far ritirare le truppe statunitensi dalla Siria settentrionale.
Le conseguenze non si sono fatte attendere: il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dato il via libera per invadere il Rojava ed effettuare una vera e propria pulizia etnica.
Ciò significa che l’ISIS riemergerà, riprendendo le operazioni in Siria e in tutto il mondo con la compiacenza della borghesia turca.
Sia l’ISIS che l’invasione turca rappresentano l’ennesima aggressione militare contro esperimenti egualitari e femministi e pongono le basi per ulteriori spargimenti di sangue e oppressione in tutto il mondo, aprendo la strada agli autocrati etno-nazionalisti come Trump, Erdoğan, Bashar al-Assad, Jair Bolsonaro, Maduro e Vladimir Putin, affinché dominino la politica mondiale per le generazioni a venire.
È ora di intervenire attraverso reti di solidarietà alla lotta dei popoli del Rojava e in difesa della propria libertà;
È ora di appoggiare delle azioni dirette contro il governo e la borghesia turca e tutti i loro sostenitori internazionali!
Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza.
Tacere significa essere complici.

 

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Comunicato sulle proteste in Ecuador

Da un comunicato fatto girare dal profilo facebook della Biblioteca y Archivo Historico Alberto Ghiraldo di Rosario (Argentina) (link blog, link profilo fb).
Tradotto da LaHyena e Revisionato da Elena Z.

Ecuador, 9 ottobre 2019: 7° giorno di sciopero nazionale e 1° giorno di sciopero generale. Pamphlet di proletari* incazzat* della regione ecuadoriana per la rivoluzione comunista anarchica mondiale, [direttamente] da “donde las papas queman/dove bruciano le patate” (tradotto: dal centro degli eventi; da dove vi sono i problemi):
Stiamo combattendo per le strade con le masse proletarie della città e della campagna. Non c’è tempo né fotocopiatrici disponibili per pubblicare e distribuire questo opuscolo su carta. È più piacevole e utile vivere l’esperienza della ribellione piuttosto che scriverla.

Abbiamo fatto scappare il presidente fantoccio degli uomini d’affari e dei banchieri ladri del Palazzo Carondelet e abbiamo preso l’Assemblea Nazionale, attraverso massicce azioni dirette e reti di solidarietà di classe, nonostante il terrorismo dello Stato (stato di eccezione, brutale repressione poliziesca e militare, centinaia di detenuti, decine di feriti, diversi morti, coprifuoco).

Non sappiamo quando o come si concluderà la situazione attuale. Ma sappiamo che la lotta sociale continua e deve continuare, avendo chiare e ferme le seguenti affermazioni minime e non negoziabili:

* Abrogare l’intero pacchetto economico, non solo l’aumento dei biglietti;
* Abrogare lo stato di eccezione e il coprifuoco;
* Rovesciare tutti i “poteri” del governo di Moreno, i suoi capi e i suoi scagnozzi;
* Non negoziare o cedere con lo Stato dei ricchi e potenti che ci uccidono di fame e sparandoci addosso. Non lasciarsi rapinare dalla borghesia e dai politici opportunisti di destra o di sinistra il potere che abbiamo acquisito nelle strade in questi giorni. Non chiedere nuove elezioni e un nuovo governo. Ora basta con il vecchio programma politico di merda di sempre. Autogoverno delle masse.
* Mantenere le assemblee ovunque per auto-organizzare la mobilitazione, la solidarietà, l’approvvigionamento, la salute e l’autodifesa della nostra gente.
* Chiedere il ritorno di tutto il denaro rubato dagli uomini d’affari, banchieri e politici, al fine di migliorare le condizioni di vita della classe operaia nelle campagne e in città.
* Espellere le imprese minerari e il FMI.
* Liberare i compagni detenuti.
* Rompere la barriera mediatica e denunciare il terrorismo economico e poliziesco dello Stato.
* Invito a una solidarietà concreta di classe internazionale in tutto il mondo.

Proletari* in lotta per questo paese:

Che si vinca o si perda, ci siamo risvegliati dalla letargia storica, abbiamo risposto agli attacchi di tutti i tipi della classe dominante, abbiamo fatto cose che non sono state fatte in molti anni e con la pratica stiamo imparando alcune importanti lezioni durante questi giorni di intensa lotta di classe .

Che si vinca o si perda, manteniamo accesa la fiamma della lotta proletaria per poter costruire e sostenere nel medio e lungo termine una forza sociale autonoma con la capacità e la chiarezza necessaria e sufficiente per prendere il potere non dello Stato borghese -il quale deve essere distrutto dalla radice-, ma delle nostre vite. Per compiere la rivoluzione sociale fino alla fine, cioè l’abolizione e il superamento positivo della proprietà privata, della merce, del lavoro salariato, del denaro, della società di classe, dello Stato, della patria e di tutte le forme di oppressione tra gli esseri umani e sulla natura.

Non si tratta di sopravvivere meno peggio, ma di vivere davvero!
Non si tratta di cambiare padrone, ma di smettere di averne uno!
Lunga vita alla disoccupazione nazionale e allo sciopero generale!
Guerra di classe e insurrezione!
Comuni libere in tutto il paese!
Per la trasformazione e la comunicazione di tutto l’esistente!
Andiamo verso la vita

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