Articolo tratto da “La Guerra Tripolina”, numero unico pubblicato a Londra nell’Aprile 1912 [1] [2].
L’articolo e le note allegate sono tratte dal libro curato da Turcato Davide, “Errico Malatesta. Opere Complete. “Lo sciopero armato. Il lungo esilio londinese (1900-1913)”, pagg. 243-247, Edizione “Zero In Condotta” e “La Fiaccola”, Marzo 2015.
È stata aggiunta anche una nota tratta dal libro di Bettini Leonardo, “Bibliografia dell’anarchismo. Volume 1, tomo 2. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati all’estero. 1872-1971”, pagg. 159-160, CP Editrice, 1976.
Non v’è azione nefanda, non passione malvagia che non si cerchi dagl’interessati di scusare, giustificare ed anche glorificare con nobili motivi. Questo è in fondo una cosa consolante, poiché dimostra che certi ideali superiori elaborati dall’umanità nel corso della sua evoluzione sono entrati oramai nella coscienza universale e sopravvivono e s’impongono anche nei momenti di maggiore aberrazione; ma non è perciò meno necessario di svelare l’inganno e denunziare gl’interessi sordidi e le brutalità ataviche che si ascondono sotto il manto di nobili sentimenti. Cosi, a giustificare e far accettare dal popolo la guerra di rapina ehe il governo d ’Italia intendeva perpetrare contro le popolazioni della Libia non poteva bastare l’annuncio bugiardo della facilità dell’impresa e dei grandi vantaggi economici che ne sarebbero venuti al proletariato italiano. Sarebbe veramente troppo il voler indurre un uomo, che non fosse un bruto completo, a commettere un assassinio dicendogli solo che l’assassinando è inerme ed ha molti quattrini e che non v’è pericolo di essere scoperto e punito! Bisognava dunque addurre ragioni più elevate e persuadere gl’ingenui che si era di fronte ad un caso raro in cui era possibile arricchirsi facendo un’azione generosa e magnanima. F tiraron fuori la necessità di sviluppare «le energie della razza.» e mostrare al mondo il valore di «nostra gente,» il diritto ed il dovere di propagare la civiltà, e soprattut[t]o l’amor di patria e la gloria d’Italia.
Non ci occuperemo qui dei pretesi vantaggi materiali, primo perchè per noi essi non giustificherebbero l’aggressione e poi perchè oramai a questi vantaggi pochi ci credono più. a meno che non si tratti dei profitti di un piccolo numero di accaparratori e di fornitori militari. Ma esamineremo, chè ne vale la pena, le ragioni morali con cui si è voluto giustificare la guerra.
L’Italia, si è detto, non occupa nel mondo il posto che le compete. Gl’italiani non hanno coscienza delle loro energie potenziali: bisogna scuotersi ed uscire dal letargo. La vita è energia, è forza, è azione, è lotta, e noi vogliamo vivere! Sta benissimo. Ma poiché siamo uomini e non bestie brute e la vita che vogliam vivere è vita umana, bisognerà pure che l’energia da spiegare abbia delle qualificazioni. È forse l’energia della bestia da preda quella a cui si aspira? O quella del bravaccio, del brigante, dello sbirro, del boja? O quella – e forse questo è il paragone che meglio si attaglia al caso — del bruto vigliacco che, avendone toccato in piazza, torna a casa e dà prova di bravura… bastonando la moglie?
L’energia della gente civile, la forza che produce davvero intensità di vita non è quella che si spiega nelle lotte inter-umane, colla prepotenza contro i deboli, coll’oppressione dei vinti. Ma è quella che si esercita nella lotta contro le forze avverse della natura, nei compiti del lavoro fecondo, nelle ardue ricerche della scienza, nell’ajutare a progredire quelli che restano indietro, nel sollevare i caduti, nel conquistare per tutti gli esseri umani sempre maggiore potenza e maggiore benessere. Si, certo, gl’italiani mancano di energia. La borghesia, pavida ed inerte, non sa nemmeno sfruttare i lavoratori che si offrono e li costringe ad andare a farsi sfruttare all’estero; ed i lavoratori si lasciano cacciar via dal loro paese in cerca di un tozzo di pane, ed ora si fanno mandare in Libia ad ammazzare e farsi ammazzare per il benefizio di pochi ingordi speculatori, per conquistare nuove terre a coloro che impediscon loro di godere delle terre d’Italia. Ma non è la guerra che darà loro energia e volontà di progredire, come non dà energia a chi non sa e non vuol lavorare il mettersi a vivere di furto e di prostituzione.
Lavorare e pretendere il frutto del loro lavoro, ecco ciò che bisogna agl’italiani, come a tutti gli altri popoli.
Noi, dicono i guerrajuoli, apportiamo la civiltà ai barbari.
Vediamo un po’.
Civiltà significa ricchezza, scienza, libertà, fratellanza, giustizia: significa sviluppo materiale, morale ed intellettuale: significa l’abbandono e la condanna della lotta brutale, ed il progredire della solidarietà e della cooperazione cosciente e volontaria. Civilizzare importa anzitutto ispirare il sentimento della libertà e della dignità umana, elevare il valore della vita, spronare all’attività ed all’iniziativa, rispettare gl’individui e gli aggruppamenti naturali o volontari che gli uomini fanno. È questo che vanno a fare in Africa i soldati d’Italia al servizio del Banco di Roma?
Malgrado Verbicaro [3] e la Camorra, malgrado l’analfabetismo, malgrado le terre incolte e malariche e le migliaja di comuni senza acqua, senza strade, senza fogne, l’Italia è pur sempre più civile della Libia. Essa ha operai abili e forti; essa ha medici, ingegneri, agronomi, artisti: essa ha grandi tradizioni, ha tutto un popolo intelligente e gentile che. quando non è stato soffocato dalla miseria e dalla tirannia, si è mostrato sempre capace delle opere più ardue e più nobili. Essa potrebbe ascendere rapidamente alle più alte vette della civiltà umana e divenire nel mondo un possente fattore di progresso e di giustizia.
E invece, ingannata ed ubbriacata da coloro stessi che l’opprimono e la sfruttano e le impediscono di sviluppiate le sue qualità e le sue ricchezze, essa manda in Africa soldati e preti, essa porta strage e rapina, e nel tentativo infame di ridurre in schiavitù un popolo straniero, essa s’imbrutisce e si fa schiava essa stessa. Venga presto l’ora del ravvedimento!
E veniamo all’argomento magno: il patriottismo.
Il sentimento patriottico ha incontestabilmente un fascino grande in tutti i paesi e serve ammirevolmente agli sfruttatori del popolo per far perder di vista gli antagonismi di classe e, in nome di una solidarietà ideale di razza e di nazione, trascinare gli oppressi a servire, contro di loro stessi, gl’interessi degli oppressori. E ciò riesce tanto più facilmente in un paese come l’Italia che è stato lungamente oppresso dallo straniero e se ne è liberato solo ieri dopo lotte cruenti e gloriose.
Ma in che consiste propriamente il patriottismo?
L’amore del loco natio. o piuttosto il maggiore amore per il luogo dove siamo stati allevati, dove abbiamo ricevute le carezze materne, dove bambini giocammo coi bambini, e giovanetti conquistammo il primo bacio di una fanciulla amata, la preferenza per la lingua che comprendiamo meglio e quindi le più intime relazioni con coloro che la parlano, sono fatti naturali e benefici. Benefici, perchè, mentre riscaldano il cuore di più vivi palpiti e stringono più solidi vincoli di solidarietà nei varii gruppi umani e favoriscono l’originalità dei varii tipi non fanno male ad alcuno e non contrastano, anzi favoriscono, il progresso generale.
E se le dette preferenze non rendono ciechi ai meriti altrui ed ai proprii difetti, se non vi fanno sprezzatori di una più vasta cultura e di più vaste relazioni, se non ispirano una vanità e boria ridicole che fa credere che si vai meglio di un altro perchè si è nati all’ombra di un certo campanile o in certi dati confini, allora esse possono riuscire elemento necessario nell’evoluzione futura dell’umanità. Poiché, abolite quasi le distanze dai progressi della meccanica, aboliti dalla libertà gli ostacoli politici, aboliti dall’agiatezza generale gli ostacoli economici, esse restano la garenzia migliore contro il rapido accorrere di masse enormi di emigranti verso i siti più favoriti dalla natura o meglio preparati dal lavoro delle generazioni passate: cosa che creerebbe un grave pericolo per il pacifico progredire della civiltà. Ma non è solo da questi sentimenti che è alimentato il cosiddetto patriottismo. Nell’antichità l’oppressione dell’uomo sull’uomo si compieva principalmente a mezzo della guerra e della conquista. Era lo straniero vincitore che s’impadroniva delle terre, che costringeva gl’indigeni a lavorarle per lui. ed era, se non l’unico, certo il più duro ed esecralo padrone. E questo stato di cose, se è quasi sparito nelle nazioni di razza europea, dove il padrone è ora il più delle volte un compatriota delle sue vittime, resta ancora il carattere prevalente nei rapporti degli europei coi popoli di altra razza. Quindi la lotta contro l’oppressore ha avuto ed ha spesso ancora il carattere di lotta contro lo straniero. Disgraziatamente, ma comprensibilmente, l’odio dello straniero in quanto oppressore divenne odio dello straniero in quanto straniero, c trasformò il dolce amor di patria in quel sentimento di antipatia e di rivalità verso gli altri popoli, che si suol chiamare patriottismo, e che gli oppressori indigeni dei varii paesi sfruttano a loro vantaggio. E compito della civiltà è di dissipare questo equivoco nefasto, ed affratellare i popoli tutti nella lotta per il bene comune. Noi siamo internazionalisti, vale a dire che. conte dalla patria minuscola, che si raccoglieva intorno ad una tenda o ad un campanile e viveva in guerra colle tribù o coi comuni circostanti si è passato alla più grande patria regionale e nazionale, così noi estendiamo la patria al mondo tutto, ci sentiamo fratelli di tutti gli esseri umani e vogliamo benessere, libertà, autonomia per tutti gl’individui e tutte le collettività.
Come per i cristiani, all’epoca in cui il Cristianesimo era creduto e sentito, la patria era la Cristianità tutta quanta e lo straniero da convertire o da distruggere era il pagano, cosi per noi son fratelli lutti gli oppressi, tutti coloro che lottano per l’emancipazione umana – e sono nemici tutti gli oppressori, tutti coloro che il proprio bene fondano sul male altrui, dovunque essi sien nati e qualunque sia la lingua che parlano.
Noi aborriamo la guerra, fratricida sempre e dannosa, e vogliamo la rivoluzione sociale liberatrice: noi deprechiamo le lotte fra i popoli ed invochiamo la lotta contro le classi dominanti. Ma se disgraziatamente un conflitto avviene fra popolo e popolo, noi siamo con quel popolo che difende la sua indipendenza. Quando le soldatesche austriache scorazzavano le campagne lombarde e le forche di Francesco Giuseppe si ergevano sulle piazze d’Italia, nobile e santa era la rivolta degl’italiani contro il tiranno austriaco. Oggi che l’Italia va ad invadere un altro paese e sulla piazza del mercato di Tripoli si erge e strangola la forca infame di Vittorio Emanuele, nobile e santa è la rivolta degli arabi contro il tiranno italiano. Per l’onore d’Italia, noi speriamo che il popolo italiano rinsavito, sappia imporre al governo il ritiro dall’Africa: e se no. speriamo che gli arabi riescano a cacciamelo.
E cosi pensando, siamo ancora noi «gli antipatrioti» che avrem salvato in faccia alla storia, in faccia all’umanità, quanto vi è di salvabile dell’onore d’Italia. Sarem noi che avrem mostrato che non è completamente spento in Italia il sentimento che animò e Mazzini e Garibaldi e tutta quella schiera gloriosa d’italiani che coprì delle sue ossa tutti i campi di battaglia di Europa e di America dove si combattè una santa battaglia, e fece caro il nome d’Italia a quanti, in tutti i paesi, avevano un pàlpito per la causa della libertà, dell’indipendenza, della giustizia.
Errico Malatesta
Note
[1] La Guerra Tripolina, che recava il generico sottotitolo «Pubblicazione di un Gruppo Anarchico». fu pubblicato dal gruppo di Malatesta per manifestare il suo punto di vista sulla guerra italo-turca e il militarismo. Il giornale si apriva con la dichiarazione di aver ricevuto e registrato «con piacere» l’adesione del Gruppo Rivoluzionario Italiano di Parigi. Fra i collaboratori vi erano Felice Vezzani e Silvio Corio. Secondo confidenti del consolato italiano a Londra, della pubblicazione furono stampate 5000 copie, distribuite gratuitamente.
[2] Nell’apr. 1912, la pubblicazione, a Londra, del n.u. La Guerra Tripolina, con cui Malatesta aveva preso posizione contro l’avventura libica e la guerra italo-turca, aveva provocato l’inevitabile reazione degli ambienti nazionalistici italiani. Dal coro di voci ostili al pacifismo « antipatriottico » di Malatesta, era emersa anche una voce calunniosa e chiaramente provocatoria, che accusava il vecchio rivoluzionario d’essere un agente al soldo del governo turco. L’insinuazione, tanto grave quanto assurda, veniva da certo Ennio Bellelli, un ambiguo personaggio, dai lucrosi quanto oscuri proventi, infiltratosi negli ambienti anarchici londinesi — dove si atteggiava a compagno — ma già da tempo sospettato d’essere al servizio della polizia italiana. Il fatto, tuttavia, parve a Malatesta l’occasione favorevole per far luce definitivamente sulla reale attività del suo accusatore, in quanto gli consentiva, ritorcendo l’accusa, di deferire il giudizio sulla verità dei fatti, a un giurì d’onore; ciò che significava, in pratica, demandare, a un organismo non giuridico, l’apertura di una inchiesta sui trascorsi del Bellelli e la verifica di taluni aspetti poco chiari, o addirittura sospetti, del suo comportamento. «Troppo appariscenti sono i motivi dell’insana calunnia! — scriveva infatti Malatesta, in una circolare Alla colonia italiana di Londra, diffusa il 22 apr. 1912 — ed io non ne terrei alcun conto se essa non venisse da Bellelli e non mi porgesse il destro di andare a fondo di una questione che da anni tormenta me e tutti, o quasi, coloro che il Bellelli conoscono … Io m’impegno a dimostrare come guadagno ogni centesimo di cui dispongo, da dove viene ogni boccon di pane che metto in bocca; il Bellelli faccia altrettanto. Se io non dimostro a soddisfazione di tutti, amici e avversari, l’origine chiara ed onesta dei miei mezzi di vita, io autorizzo la gente a trattarmi di SPIA TURCA; se il Bellelli non fa lo stesso, permetterà che si ritenga provato ch’egli è una SPIA ITALIANA ». La sfida non venne ovviamente raccolta dal Bellelli, che preferì schivare il verdetto popolare e adire le vie legali, sporgendo querela per diffamazione. Il processo che ne seguì, si chiuse il 20 mag., con una sentenza di colpevolezza per Malatesta e la condanna a tre mesi di reclusione (la domanda di appello alla Corte superiore venne respinta), poi interamente scontati nelle carceri di Wormwood Scrubb; e fu solo sotto la pressione d’una generale indignazione per l’incredibile verdetto e dell’immediata presa di posizione degli ambienti democratici inglesi (sulle molte iniziative prese, a mezzo di comizi e pubblicazioni, vd. M. Nettlau, Errico Malatesta, New York [1922], p. 268 sq.), che venne accantonata la richiesta di espulsione di Malatesta dal Regno Unito, avanzata al Segretario degli Interni. A tutta la vicenda è appunto dedicato il n.u. La Gogna, diffuso nel lug. 1912 da « Alcuni anarchici », nell’intento di provare sulla scorta delle documentazioni e delle testimonianze che fu possibile raccogliere, la malafede del querelante, bollato ormai dal « giudizio del popolo », anche « se è mancata la cosiddetta prova legale ». È stato, infatti, proprio il popolo inglese — è detto — che agitandosi con ogni mezzo per la liberazione di Malatesta, «ha reso giustizia al suo vecchio amico».
[3] Quando il paese calabrese di Verbicaro fu colpito da un’epidemia di colera nel 1911. scoppiò una violenta rivolta contro le autorità locali, considerate responsabili dell’epidemia. L’episodio fece scalpore e fu interpretato come una manifestazione di primitiva barbarie. Il governo di Giovanni Giolitti affrontò la rivolta più come una questione di ordine pubblico che di sanità pubblica. Segui un’intensa campagna di repressione e il paese fu occupato militarmente dall’esercito per i successivi tre anni.