Nessun reato, nessun mercato.

Articolo apparso su Sicilia Libertaria, Marzo 2017

 

 

Il recente dibattito parlamentare sulla proposta di legge di legalizzazione della canapa e i drammatici eventi che si susseguono quotidianamente sulla pelle dei consumatori hanno riacceso mediaticamente la logorante contesa politica tra correnti proibizioniste e liberali.
Dall’ultima relazione annuale sulle tossicodipendenze presentata in Parlamento, seppur notevolmente arrotondata per difetto, sappiamo che più di 6 milioni di italiani consumano abitualmente cannabis o suoi derivati e che circa un terzo degli studenti tra i 15 e i 19 anni l’ha usata almeno una volta nell’ultimo anno.
L’unico dato in costante crescita è quello del numero dei detenuti che oggi ci assegna il triste primato europeo negli arresti per reati connessi alle norme antidroga, il 32% , la metà dei quali solo per le cosiddette droghe leggere.
Ma a chi giova tutto questo? E quanti ne pagano le spese?
Tralasciando volutamente le analisi moraliste, tecniciste o legalitarie delle parti in causa, è necessario riflettere sulla funzione socio-economica che riveste il più grande business illegale al mondo, quello delle sostanze illecite.
Un mercato florido, estremamente versatile, capace di adattarsi alle esigenze dei clienti e di riorganizzarsi rapidamente dopo una azione repressiva, brillante esempio di capitalismo reso ancora più efficiente dalla completa deregolamentazione ottenuta e garantita dall’illegalità: nessun controllo di qualità, nessuna tassazione, nessuna tutela sul lavoro.
E proprio come ogni altro mercato capitalista, esso produce e acuisce differenze socio-economiche tra i suoi aderenti.
E’ qui, dunque, che l’indagine della realtà ci conduce ad una riflessione più profonda degli attuali orizzonti normativi: regolamentare e tassare la vendita di cannabis, cioè la sostanza vietata più consumata e col più basso indice di tossicità(più di 2kg di principio attivo puro per una persona di 70 kg di peso e nessun caso di morte mai registrato), rientra a buon diritto nel quadro teorico di ridimensionamento del mercato illegale a favore del monopolio di Stato, si rivela quindi come una traslazione di mercato con la sua conseguente regolamentazione fiscale.

Sappiamo però che modificare d’imperio le condizioni di un mercato capitalista, poco cambia che sia una delocalizzazione multinazionale o una improvvisa liberalizzazione del mercato interno, produce crisi economica sulle classi subalterne.
Di chi parliamo è presto detto: il mercato delle sostanze illegali necessita di una vasta rete di vendita al dettaglio che incida poco sul prezzo finale del prodotto e disposta, o per meglio dire rassegnata dalle proprie condizioni, a farsi carico dei rischi legali più ricorrenti, ovvero l’eterogeneo sottoproletariato urbano.
E’ ancora oggi questo variegato strato sociale a sperimentare per primo l’economia illegale di sussistenza: pensionati, studenti, disoccupati o lavoratori occasionali, a volte interi nuclei familiari che, per mezzo delle forniture all’ingrosso gestite in esclusiva dalla grande distribuzione mafiosa, si assicurano una compensazione economica per la loro costante precarietà.

E questo business, fortuna loro, finora è stato abbastanza grande da contenerli.
Ma le attuali proposte di regolamentazione della cannabis mirano, come avvenuto nei paesi con più lunga tradizione legalizzatrice, ad aprire nuovi ed enormi spazi di mercato a grandi gruppi economici nazionali e multinazionali incidendo sul mercato illegale fino ad ora garantito dal proibizionismo e che, a cascata, ha (mal)nutrito generazioni popolari. Perfino i pionieri delle politiche proibizioniste mondiali, gli Stati Uniti, hanno fiutato l’affare avviando enormi processi di legalizzazione mediante licenze private che, si stima, possano produrre fino a 44 miliardi di dollari entro il 2020.
E’ sintomatico quindi che nessuna proposta di legge attualmente presente sui tavoli istituzionali italiani punti alla semplice e completa depenalizzazione di uso e coltivazione della cannabis fuori da ogni regime di monopolio rendendola, di fatto, ciò che più evidentemente è: una pianta d’uso comune.
Fin troppo evidente che una proposta politica del genere annienterebbe qualsiasi interesse alla speculazione in un settore di punta dell’economia mondiale, logica conseguenza è il suo accantonamento e la sostituzione con i più disparati artifici normativi, proposti gradualmente a seconda dei settori produttivi da favorire: dalla cannabis terapeutica venduta da multinazionali del farmaco alle coltivazioni di canapa tessile con semi OGM non psicoattivi (non sia mai che a un contadino, nelle pause dal suo duro lavoro, venga voglia di farsi gratuitamente una canna!).

Nessun provvedimento legale affronta le contraddizioni economiche dei quartieri popolari e le gravissime e prolungate responsabilità politiche che hanno generato e mantengono precarietà lavorativa e povertà, principali catalizzatori sociali del mercato nero.
Nessuna interrogazione parlamentare si pone domande su cosa significherebbe sottrarre dagli strati economici popolari gli almeno 4 miliardi di euro stimati per il solo commercio di droghe leggere e su quali drammatiche conseguenze potrebbe avere sulla vita delle persone interessate.

E i milioni di posti di lavoro propagandati dai sostenitori italiani della liberalizzazione su quali modelli di previsione politico-economica basano il loro ottimismo in un mercato interno in voluto ritardo rispetto a chi, all’estero, da decenni ha già avviato imprese multinazionali della canapa pronte a cannibalizzare ogni nuovo paese?
Ancora una volta il copione si ripete: politica e capitale, mano nella mano, si avviano verso l’ennesima forma di sfruttamento degli attori sociali svantaggiati che, essi per primi, hanno cresciuto nella cultura di una illegalità di comodo e ai quali ora si vuole chiedere di adattarsi o perire per i cambiamenti richiesti dal mercato emergente.
La formula è ben rodata: nessuna critica complessiva dell’economia, nessuna assunzione di responsabilità sociale.

Come anarchici conosciamo bene questo squallido gioco, pienamente consapevoli che nessuna regolamentazione del mercato annulla le nefaste conseguenze della sua stessa esistenza e che l’unica tutela, per ognuno di noi, è la lotta da ogni forma di coercizione, legale o economica che sia, affinché chiunque possa affrontare responsabilmente le proprie scelte individuali nel e con il rispetto di una comunità solidale.
Per questo non accettiamo facili soluzioni sulla pelle di nessuno né commercializzazioni di comodo, sostenendo la completa libertà e consapevolezza in ogni scelta di vita.
E il nostro difendere il diritto alla piena autodeterminazione degli individui, come sempre, non toglie nulla all’esigenza della cura reciproca, all’attenzione sui rischi di qualunque uso o abuso di sostanze e alle responsabilità sociali che ne derivano, piuttosto le rafforza smascherando chi da troppo tempo lucra sulla bilancia tra legalità e repressione, unica reale causa di sfruttamento, emarginazione sociale e morte.

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